Sicurezza e sviluppo, binomio da scintille
Al tempo in cui la presidenza Usa dichiara che taglierà i fondi per gli aiuti alla cooperazione internazionale, per investirne di più nella difesa e in armi; al tempo in cui agli attacchi dei terroristi si risponde innalzando muri sempre più solidi tecnologicamente e si studia come contrastare gli attacchi “cyber”; il binomio sicurezza-aiuti allo sviluppo fa scintille.
Scintille che si accendono attorno ad alcune domande di fondo: si può accettare di spendere denaro per sostenere quei Paesi da cui provengono alcuni protagonisti degli attentati più efferati?, e lo slancio verso la solidarietà internazionale non è “buono” e ragionevole solo nelle stagioni sicure?, e non sarebbe più saggio finanziare barriere e metal detector sofisticati per controllare i flussi di rifugiati tra i quali si potrebbe nascondere chi ha come aspirazione uccidere uccidendosi?
Sono domande che costringono a mettere a fuoco in modo più preciso come oggi si debba intendere il tema “aiuto”, a partire da esperienze concrete maturate sul campo, nel senso letterale della parola.
Le caratteristiche dell’aiuto intelligente
Là dove si realizzano concretamente i progetti si misura, infatti, come un aiuto intelligente debba rispondere soprattutto a due caratteristiche: sostenibilità e “resistenza” al tempo, ai mutamenti, ai conflitti. Per avere questo profilo l’aiuto deve insistere su due piani che sempre si integrano e completano a vicenda, quasi al punto di sovrapporsi: il piano “socio-economico” e quello “educativo”.
Prendiamo l’esperienza, ad esempio, dei progetti di “cash for work” sostenuti dalla cooperazione italiana, attuati da AVSI recentemente in Libano: questi progetti offrono ai siriani che vivono nei campi profughi la possibilità di ricevere “cash”, aiuti in contante, in cambio di ore di lavoro per progetti che hanno anche una ricaduta sociale, una sorta di “lavori socialmente utili” con più spessore.
Una formula questa che offre al capo famiglia, altrimenti costretto all’inattività, la spinta a rimettersi in gioco e alla famiglia una nuova autonomia: i figli possono andare a scuola e la famiglia riacquista un ritmo di vita “normale” anche in una condizione di grande provvisorietà. Un lavoro, quando si è profughi vicini al confine con il proprio Paese, è come un filo tenace che tiene attaccati all’origine, alla speranza di potere tornare un giorno a casa: così non si avverte più come impellente il bisogno di scappare lontano, imbarcandosi su barconi fatiscenti verso un’Europa non troppo accogliente, né di cercare altri modi (violenti?) per dare un senso al tempo.
Ma questo non basta.
Progetti tra Libano e Giordania
Prendiamo un secondo esempio: i progetti che puntano a riportare a scuola le decine di migliaia di bambini siriani che sono profughi in Giordania, Libano, Iraq, Turchia. L’Unione europea (attraverso il Trust Fund Madad) e l’Unicef stanno finanziando progetti che puntano a garantire educazione e a ri-portare a scuola centinaia di migliaia di bambini siriani, quasi una generazione intera, figlia della guerra, che rischia di crescere “perduta”, senza una chance educativa.
In questa sfida epocale e miliardaria (basti pensare che la Conferenza organizzata il 4 e 5 aprile scorsi dall’alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza europea insieme a Germania, Regno Unito, Norvegia, Kuwait e Qatar ha promesso 6 miliardi di dollari per il 2017) è in gioco non solo un percorso di scolarizzazione, per insegnare a scrivere, leggere e far di conto – che restano lezioni indispensabili.
C’è qualcosa di molto più radicale e potente: la possibilità di accompagnare bambini nati con la guerra a conoscere, per esperienza, che nelle situazioni di crisi la violenza non è l’unica opzione; che, al contrario di quanto predicano il sedicente Stato islamico, l’Isis, e i reclutatori della morte, la persona diversa per idee, religione, cultura, costumi, lingua non è un’obiezione, non è un ostacolo alla riuscita personale, anzi. Che sulla relazione con l’altro/gli altri, diversi, è possibile costruire un tessuto di vita comune, fatto di libertà, nel quale può fiorire uno sviluppo giusto per tutti.
Aiuto come investimento in sicurezza
Se l’aiuto si articola con questa costante duplice attenzione, nei fatti e non in astratto, si traduce in un investimento concreto, effettivo, in sicurezza: contribuisce infatti a contrastare alla radice alcuni fattori che sono all’origine dell’opzione violenta di chi si fa foreign fighter e terrorista. Qualcuno chiama alcuni di questi “lupi solitari”, come fossero dei pazzi sganciati da contesti e relazioni, ma non lo sono in realtà. Sono espressione di ramificazioni e rapporti complessi, che chiedono di essere indagati.
Gli esperti di jihadismo si dividono, faticano a trovare la quadra rispetto ai meccanismi che inducono una persona, un giovane spesso, a “radicalizzarsi” al punto da lasciarsi sedurre dal richiamo della morte più che dal desiderio di vita.
La povertà, l’ignoranza, il disagio sociale ed economico, il fanatismo religioso, la ricerca di un motivo per cui vivere, la follia pura: nessuno di questi dati preso singolarmente basta a spiegare il perché un giovane sceglie di fare una strage di innocenti nel centro di una città occidentale e suicidarsi. Perché analizzando i singoli casi, le vicende personali, non sempre i conti tornano.
Ma più che in nuove armi o strategie o confini rinforzati o rimpatri che non decollano, si tratta di investire in piani di lungo periodo, in aiuti, appunto, che pongano la cura della persona e i suoi reali bisogni al centro: la persona singola, in tutta l’ampiezza della sua dignità, considerata inserita in una rete di relazioni strutturanti e irrinunciabili con la famiglia e la comunità.
Queste modalità di aiuto ad ampio spettro, per così dire, non sono interventi magici che garantiscono soluzioni rapide, né escludono l’importanza di interventi nel campo della sicurezza nel senso proprio del termine.
Ma per visione e prospettiva che propongono, provano almeno a stare all’altezza della complessità di questo tempo che viviamo, ferito così profondamente in certezze che sembravano ormai acquisite.