Venezuela: crisi umanitaria; Colombia da sola ad affrontarla?
“Prepara il tuo fucile, che ti aspettiamo qui”. Con queste parole il presidente del Venezuela Nicolás Maduro aveva risposto a Luis Almagro, segretario dell’Osa (Organizzazione degli Stati americani) che il 14 settembre in visita a Cùcuta, sul ponte Bolivar – simbolo tragico dell’emigrazione venezuelana verso la Colombia -, aveva riaperto la discussione su un possibile intervento militare in Venezuela: “Penso che non dovremmo escludere alcuna opzione”.
Oggi, queste dichiarazioni appaiono anni luce lontane: la velocità della geopolitica e l’equilibrio dinamico di questo nuovo mondo sovranista hanno in meno di un mese riorganizzato l’agenda sui nuovi interessi nazionali, espungendo la polveriera Venezuela dalla propria narrazione.
Venezuela verso un processo di ‘coreanizzazione’
Il rischio di una ‘coreanizzazione’ della crisi venezuelana, nella retorica delle parti, è man mano mutato in una condizione redditizia di mantenimento delle specifiche convenienze nell’area. Per il realista Donald Trump l’America latina e il Venezuela non sono una priorità, avendo l’area del Pacifico come fulcro dei suoi progetti geostrategici.
Nella costruzione dell’epica yankee degli eletti contro l’ossessione della marcia dei migranti che attraversa le Americhe, il Venezuela non può esistere; anzi un eventuale conflitto significherebbe legittimare la crisi umanitaria che ne deriverebbe, con la conseguenza di doverla sostenere. Douglas Brinkley, della Rice University, storico conoscitore delle politiche presidenziali americane, in un articolo pubblicato sull’Independent del 15 novembre 2018 – “Trump has only tweeted once about migrant caravan since midterms, despite obsessive immigration posting during election campaign” – ha fatto notare come nella storia ci siano stati pochi esempi nei quali un comandante in capo, dopo aver avvertito il Paese di quella definita come una minaccia incombente, l’abbia lasciata cadere non appena la gente avesse votato. Per Brinkley l’unico parallelo forse utilizzabile è quello dell’azione del presidente Lyndon B. Johnson per accelerare la guerra del Vietnam del 1964 nel Golfo del Tonchino. E comunque la strategia di Trump ha assolutamente un ordine diverso, ovvero di identificazione elettorale.
La vittoria di Bolsonaro in Brasile
In Brasile la vittoria di Jair Bolsonaro chiude – almeno temporaneamente – gli spazi di un nuovo processo integrazionista per l’America latina, cambiando radicalmente la matrice identitaria della più importante economia regionale e rivolgendo le sue relazioni – in un ottica di neo-primazia – soprattutto verso Stati Uniti, Israele, Giappone e Italia.
La Russia e la Cina sono ormai attori silenziosi e potenti nell’area. Con Maduro si sono abbondantemente esposte, finanziando ingenti progetti militari e di sostegno tecnologico in cambio di spedizioni petrolifere.
Secondo un rapporto del Washington Office on Latin America (Wola), il Venezuela ha un armamento dieci volte più potente del Panama di Manuel Noriega. In un quadro di emergenza terribile, la rivoluzione bolivariana conserva un importante consenso emozionale, mentre le opposizioni appaiono non credibili e compromesse.
Tutte condizioni e presupposti che stanno cronicizzando la crisi venezuelana in un processo di “corenizzazione” senza via d’uscita, e senza che più nessun attore regionale e globale abbia interesse o vocazione alla sua soluzione.
La Colombia rischia di restare sola?
In questo contesto il Paese più vulnerabile è senza dubbio la Colombia, costretta a subire la gran parte del flusso migratorio senza più il sostegno, l’afflato e il coinvolgimento della comunità internazionale.
Il numero di rifugiati e migranti venezuelani ha raggiunto la cifra di tre milioni secondo le stime fornite a novembre dalla Iom (International Organization for migration). Il flusso costante di persone che fuggono dalla gravissima recessione e dal costringimento delle libertà civili e politiche è destinato, verosimilmente, a non ridursi nel 2019.
La Colombia, che dagli Anni ’60 è stata terra di fortissima emigrazione con circa 4,5 milioni di cittadini all’estero, oggi si ritrova a essere Paese ricettore con l’arrivo negli ultimi tre anni di circa un milione di venezuelani. Condizione nuova e assolutamente inversa, quando un tempo erano i colombiani a cercare fortuna nel vicino e ricco Venezuela.
La nuova Colombia post-conflitto, al di là delle pretenziose speculazioni politiche, sia con il governo di Juan Manuel Santos e sia con il neo-governo di Iván Duque, ha affrontato la crisi migratoria – una vera sfida per un Paese in transizione – caratterizzandosi per serietà nelle forme e nelle ragioni della storia.
La Colombia ha approntato una risposta pragmatica, con la previsione di un programma di regolarizzazione dei cittadini venezuelani attraverso permessi di soggiorno temporanei che consentono l’accesso al mercato del lavoro, alla salute e all’istruzione.
Inizialmente era stato creato il permesso speciale di permanenza (Pep) che offriva residenza temporanea ai venezuelani arrivati nel Paese tra luglio 2017 e febbraio 2018, nonché la tessera di mobilità frontaliera che consentiva la circolazione nelle aree di confine tra i due Paesi. Entrambi i permessi sono stati concessi fino a febbraio 2018. Per il resto dei residenti venezuelani in condizione di irregolarità nel Paese (circa 442 mila) si è aperto un periodo di regolarizzazione al fine di ottenere un permesso di soggiorno di massimo due anni.
Successivamente la Colombia ha annunciato la creazione di una piattaforma online per i lavoratori stranieri, in cui le aziende devono registrarsi per cercare di evitare la situazione di sfruttamento del lavoro.
Queste risposte sono coerenti per almeno due motivi. In primo luogo, sono in linea con ciò che la Colombia ha chiesto per i suoi cittadini in una situazione non documentata all’estero, considerando che migliaia di colombiani hanno beneficiato di regolarizzazioni nel passato in Paesi come Spagna, Italia, Argentina, Svizzera e Francia, per citare alcuni esempi. In secondo luogo, tale impostazione è conforme con il sostegno che la Colombia darà al Global Compact for Migration che sarà adottato in Marocco la prossima settimana e che mira ad aprire rotte migratorie sicure, ordinate e regolari.
La governance e la politica delle migrazioni in Colombia dovrà affrontare nel 2019 verosimilmente due impegnative difficoltà. In primo luogo, il declassamento della crisi del Venezuela a livello internazionale porrà Bogotà in una condizione di possibile solitudine nell’affrontare la sfida dell’inclusione/regolarizzazione dei migranti, dei quali si prevede tra l’altro un aumento in termini numerici. In secondo luogo, l’ascesa al potere del presidente brasiliano Bolsonaro, con le sue politiche illiberali e il profilo nazional-populista della sua retorica, potrebbe avere effetti estremamente negativi sulle politiche di integrazione di tutto il sub-continente, restringendo le positive pratiche di risposta e solidarietà verso i venezuelani poste in essere dagli altri Paesi della regione – oltre la Colombia, in primis Perù ed Ecuador.