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Chatham House

Brexit: il futuro delle relazioni con l’Ue e quello della Scozia

13 Gen 2020 - Thomas Raines, Jason Naselli - Thomas Raines, Jason Naselli

Con la nuova Think Tank Platform di AffarInternazionali ripubblichiamo, in esclusiva per l’Italia, editoriali o estratti delle ricerche degli istituti di ricerca nostri partner in tutto il mondo. Nel mese in cui, dopo svariati rinvii, la Brexit si avvia a consumarsi, pubblichiamo un editoriale di Chatham House sulle prospettive del negoziato sulle relazioni future tra Regno Unito e Unione europea e sulla posta in palio per l’indipendenza della Scozia.
Qui la versione originale.
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Cosa vuol dire la vittoria di Boris Johnson per la Brexit e i prossimi negoziati commerciali di Londra con l’Unione europea?

Il dato più importante che è emerso dalla vittoria dei Conservatori nelle elezioni anticipate di dicembre nel Regno Unito è che la Brexit, finalmente, si farà. Dal referendum in poi, abbiamo assistito a tre anni e mezzo di continue incertezze, durante i quali ogni esito era ancora possibile. Adesso, invece, sappiamo per certo che la Brexit diventerà irreversibile il 31 gennaio.

Questa circostanza avrà un grande impatto psicologico sulla politica, sia nel Regno Unito che nell’Unione europea. In questi anni l’Ue ha lavorato con un partner che non era sicuro della direzione che avrebbe intrapreso; e forse alcuni hanno anche sperato ancora che il processo di uscita potesse essere invertito. Oggi quella direzione è decisamente chiara.

In cima all’ordine del giorno è chiaramente l’approvazione dell’accordo di recesso, il Withdrawal Agreement Bill, che però – vista la maggioranza dei Conservatori a Westminster – è da considerarsi ormai una formalità. (L’accordo è stato approvato dalla Camera dei Comuni il 9 gennaio, ndR).

A questo punto, la questione si concentra piuttosto sul livello di ambizione che ci riserveranno i prossimi mesi: la tabella di marcia per negoziare, ratificare e attuare una nuova relazione fra Regno Unito e Unione europea prima della fine del periodo di transizione post-Brexit, nel dicembre 2020, è particolarmente serrata.

Cosa si può fare entro la fine dell’anno?
Penso che ci siano tre possibili risultati.

Uno: la tabella di marcia non funziona e Boris Johnson mantiene la sua promessa di lasciare comunque il periodo di transizione, portando a un “no trade deal“.

Due: i negoziati riescono nell’intento di produrre qualcosa entro la fine del 2020, vuoi perché l’ambizione di concludere un qualsiasi accordo è relativamente bassa (quello che Michel Barnier ha definito un “minimo vitale”) e/o perché si arriva a un qualche tipo di compromesso su un processo che non si chiami estensione, ma in un altro modo: un tipo di accordo temporaneo o un nuovo periodo di attuazione.
Si tratta di una situazione in cui si potrebbe avere un accordo di fondo entro la fine del periodo di transizione, ma con un lungo periodo di negoziato per diverse questioni irrisolte. L’Unione europea probabilmente insisterà sulla parità di condizioni e sui diritti di accesso alla pesca come componente di qualsiasi accordo di questo tipo.

Tre: Boris Johnson rompe il suo chiaro impegno di non prorogare il periodo di transizione. Ora, il premier aveva già paventato un addio senza accordo, salvo poi tornare sui suoi passi e rendersi conto che era meglio fare significativi compromessi nel negoziato con l’Ue anziché seguire la strada del no deal. Sospetto che potrebbe rifarlo.

Nessuna di queste opzioni è perfetta. La prima è la più rischiosa da un punto di vista economico, la seconda significa che l’Ue sarà in una posizione ancora più forte per dettare le condizioni e la terza vuol dire tradire l’impegno preso con i britannici.

Ma quanto è importante il termine per porre fine al periodo di transizione post-Brexit? Si tratta di una questione cara al Brexit Party e ai falchi dello European Research Group, caucus interno al gruppo parlamentare dei Conservatori. Tuttavia, vista l’ampiezza della maggioranza di Boris Johnson ai Comuni, il premier potrebbe non dovere preoccuparsi poi troppo. Sarà poi così importante la deadline di dicembre 2020 agli occhi degli elettori che hanno scelto i Tories, soprattutto se nel frattempo Johnson riesce a dimostrare di essere riuscito a tirar fuori il Regno Unito dall’Ue entro il 31 gennaio come promesso?

Ritengo che ci sia in realtà un certo spazio politico di manovra per il premier, che vanta una solida maggioranza da un lato, e considerando che la prima fase della Brexit sarà ormai alle spalle, insieme al dibattito sull’uscita dall’Ue.

Assisteremo a parecchi negoziati difficili e tecnici in ogni tipo di ambito; alcuni di questi daranno adito a qualche rancore, ma non finiranno necessariamente sulle prime pagine dei giornali come accaduto nelle prime fasi delle trattative (anche perché stavolta non si avrà il teatrino di un Parlamento “appeso”, senza una chiara maggioranza).

Ci auguriamo che ci sia un maggiore focus sulla sostanza dell’accordo e che il dibattito si concentri sulle conseguenze dirette di una maggiore divergenza o di un maggiore allineamento normativo rispetto all’Unione, che è, in poche parole, la questione centrale al cuore dell’assetto delle relazioni futuri.
Sono ancora dell’idea che il fatto che i premier britannici scelgano date arbitrarie, e poi facciano promesse politiche interne su questa base, mini in realtà la posizione negoziale del Regno Unito. Sarebbe nell’interesse della Gran Bretagna avere più flessibilità piuttosto che un orologio che tiene il tempo.

Un Regno dis-Unito?
Passando brevemente all’altra grande tema prodotto dal risultato elettorale, lo Scottish National Party (Snp) ha vinto 48 dei 59 seggi in palio in Scozia. Come si svolge da qui il dibattito sul futuro di Edimburgo nel Regno Unito?

L’Snp ha davvero rafforzato la sua posizione, ben più di quanto molti si aspettassero, e ora è pronto per una grande lotta costituzionale sul futuro del Regno Unito.

Credo che ci sia un dilemma fondamentale per i sostenitori dell’indipendenza scozzese, poiché in un certo senso la Brexit rafforza straordinariamente la causa per l’indipendenza. La differenza tra le preferenze politiche in Scozia e nel resto del Regno Unito, in particolare in Inghilterra, ne è una perfetta dimostrazione.

Allo stesso tempo, una volta che il Regno Unito avrà lasciato l’Ue, l’indipendenza diventerà molto più difficile da un punto di vista tecnico ed economico. Si ripresenteranno molte delle stesse difficoltà che ci sono state nel discutere le relazioni dell’Irlanda del Nord con la Repubblica d’Irlanda. Ci sarà un difficile dibattito sulla moneta. Ci sono tutti le condizioni perché si discuta della creazione di un confine commerciale o regolatorio tra Inghilterra e Scozia. Questo è particolarmente vero se ci sarà la Gran Bretagna lascia l’Ue senza un grande livello di allineamento normativo e regolatorio.

Per quanto riguarda le richieste di un secondo referendum sull’indipendenza, penso che in primo luogo Boris Johnson si rifiuterà semplicemente di tenerne uno. Probabilmente non è nel suo interesse a breve termine fare altro. Theresa May ha giocato in questo modo nel 2017, dicendo ripetutamente “ora non è il momento”.

In modo simile, credo che il premier si limiterà a cercare di allontanare la pressione, al punto che lo Snp dovrà affrontare le sfide dell’indipendenza con il Regno Unito al di fuori dell’Ue. Il prossimo appuntamento politico da tenere d’occhio saranno le elezioni del Parlamento scozzese nel 2021.

In definitiva, però, diventerà una posizione democraticamente insostenibile se la Scozia continuerà da parte sua a votare per l’Snp, con il rifiuto di concedere un secondo referendum destinato soltanto a rafforzare il sentimento indipendentista.

Traduzione a cura della redazione.
© Chatham House – Thomas Raines, Jason Naselli