Ue modello Bancomat: i numeri dietro il veto di Polonia e Ungheria
Lo scontro fra Polonia e Ungheria, ultimamente sostenute dalla Slovenia, e gli altri Stati dell’Unione europea non c’entra direttamente con l’economia e chiama in causa, innanzitutto, le ragioni di fondo dello stare insieme nell’Unione. Quindi, la solidità di comuni prospettive politiche.
Da diverse settimane Budapest e Varsavia tengono in ostaggio le decisioni ultime sul bilancio europeo 2021-2027 e sul nuovo strumento fiscale anti-crisi Next Generation EU, nel tentativo di sfuggire alla stretta sul rispetto delle regole dello Stato di diritto e di predeterminare i confini di una (stabile?) frontiera sovranista in un periodo in cui pandemia, crisi economica e sconfitta di Donald Trump negli Stati Uniti ne hanno indebolito argomenti e capacità di espansione.
Le ragioni di Budapest e Varsavia
Per l’Ungheria di Fidesz e la Polonia guidata dal PiS, la gestione dei fondi europei è diventata la cartina di tornasole delle relazioni continentali Est-Ovest, faglia profonda nell’Unione Europea.
Sotto tiro da anni proprio per il mancato rispetto delle regole poste a tutela dello Stato di diritto, questi due Paesi cementano la loro santa alleanza contro quelle che ritengono indebite intrusioni negli affari interni. A essere prese di mira sono le condizioni di accesso e uso delle nuove risorse finanziarie con l’occhio è rivolto sia all’interno (in Ungheria si voterà nel 2022; in Polonia nel 2023) sia alle prossime scadenze politiche europee: prima o poi il tema dei migranti andrà affrontato e non è meno divisivo di quello su tavolo attualmente.
Tuttavia, il premier ungherese Viktor Orbán e il premier polacco Mateusz Morawiecki sanno bene di non potersi permettere di maturare una rottura fino alle estreme conseguenze – tipo Brexit per intendersi, non a caso ipotesi mai accarezzata dati gli enormi vantaggi che i due Paesi, come tutto l’Est europeo, hanno accumulato dal 2004, anno dell’ingresso nell’Ue.
Le cifre in chiaro
L’estrema dipendenza dai fondi europei dà alla battaglia ingaggiata da Ungheria e Polonia il sapore di un mezzo bluff. Le cifre sono chiare. In termini assoluti, la Polonia è il terzo Paese che beneficerà di più dell’operazione Next Generation EU dopo Italia e Spagna; l’Ungheria è in decima posizione per i prestiti e in ottava per i sussidi. Anche da questa differenza si capisce perché la Polonia duetta con l’Ungheria usando toni meno roboanti.
Il peso degli aiuti anticrisi in rapporto al Pil nazionale (prezzi 2018) è considerevole: sovvenzioni e prestiti valgono circa il 14% per entrambi i Paesi. Più della Spagna e ancora di più dell’Italia. Se viene frenato l’avvio del bilancio 2021-2027 e di Next Generation EU, per Budapest e Varsavia sarebbe un autogol.
La Polonia è il Paese che beneficia di più in valori assoluti dei fondi di coesione, pari al 2,7% del Pil all’anno nel periodo 2014-2020. Una leva formidabile per l’economia che nel tempo ha permesso di aumentare rapidamente il reddito pro capite: del 17% dal 2008 al 2019; del 9% in Ungheria.
L’inserimento nel mercato unico è stato il fattore chiave del successo economico e finanziario della Polonia, che ha continuato a guadagnare quote di mercato, è ben integrata nella catena del valore europea e per questo è premiata da massicci investimenti diretti esteri, è strettamente interconnessa con l’economia tedesca. Come l’Ungheria, è al centro dell’hub manifatturiero della Repubblica federale: il solo Paese in Europa in cui sono presenti tutte e tre le major automobilistiche Volkswagen (Audi), Bmw e Mercedes-Benz.
Il bilancio dell’Ue è poca cosa, circa l’1% del Pil dei Ventisette, tuttavia averlo o non averlo fa la differenza: la Commissione calcola che al 2030 nell’Ue-13 l’impatto delle risorse europee del periodo 2014-2020 risulterà moltiplicato per 2,7 volte contro 2,4 volte nell’Ue-15.
In molti Paesi dell’Est, i fondi di coesione superano gli investimenti pubblici nazionali (è accaduto anche in Polonia e Ungheria). Il mercato interno è una effettiva “comunità di destino economico”. Sulla base della prima proposta di bilancio 2021-2027 (non di molto superiore a quella poi concordata), la Commissione calcolava per la Polonia benefici annui in termini di reddito nazionale lordo del 7,10%, per l’Ungheria del 10,79% a fronte di contributi inferiori all’1%.
Questione di maggioranze
Ne consegue che uno stretto legame tra l’accesso ai trasferimenti-prestiti dell’Ue e le regole dello Stato di diritto può creare più di un problema anche dal punto di vista economico. È una prospettiva più temuta della procedura nella quale sono entrati a grado diverso sia la Polonia sia l’Ungheria: la constatazione dell’esistenza di una “violazione grave e persistente” dei valori europei deve essere decisa all’unanimità dal Consiglio europeo al netto dello Stato membro coinvolto; una soglia impossibile da raggiungere dato lo spalleggiarsi a vicenda di Budapest e Varsavia.
Invece, il contestato accordo sui fondi Ue prevede una decisione a maggioranza qualificata: impossibile mettersi di traverso. Un sistema giudiziario non indipendente, deboli meccanismi a garanzia dell’equilibrio tra i vari poteri, insufficiente contrasto della corruzione, media sotto controllo, costituiscono un terreno ideale per l’uso non corretto di risorse finanziarie e per trovarsi sul banco dei sospettati se non degli accusati.
Nel 2019 Bruxelles ha imposto un miliardo di correzioni finanziarie a causa delle falle nel sistema degli appalti pubblici e nei controlli, l’intervento più duro nel periodo 2014-2020. In qualche modo si romperebbe il modello Bancomat: dall’Ue si prende ciò che serve, eccetto gli oneri che ne derivano in termini di rispetto di valori, equilibri costituzionali interni, aspirazioni e pratiche istituzionali, tutela dei diritti.