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La disfida fra Londra e Bruxelles

Sui vaccini “la migliore pubblicità per la Brexit”

3 Feb 2021 - Alessandra Rizzo - Alessandra Rizzo

Il fallimento dell’Unione europea sul piano vaccinale anti-Covid segna, per i fautori della Brexit, uno straordinario momento di rivalsa: mentre il gigante europeo arranca, il Regno Unito procede spedito con un programma che tocca punte di oltre mezzo milioni di iniezioni al giorno. E la débâcle di Bruxelles sulla decisione, poi revocata, di imporre controlli sui vaccini indirizzati verso l’Irlanda del Nord non ha di certo attirato a Bruxelles ulteriori simpatie al di qua della Manica.

Per il premier britannico Boris Johnson, il successo del piano vaccinale segna una possibile via di uscita da una crisi gestita male, tra ritardi, confusione e messaggi contraddittori: il Paese ha il più alto numero di decessi in Europa – più di 100 mila – e ha puntualmente mancato ogni obiettivo che si era prefissato, dal tracciamento dei contatti al numero di tamponi.

Il piano di Londra
Ma sui vaccini, il Regno Unito ha fatto bene. A dicembre è diventato il primo Paese al mondo ad approvare il vaccino di Pfizer/BioNtech, per il quale ha ordinato 40 milioni di dosi; settimane dopo ha approvato quello di Oxford-Astrazeneca, 100 milioni di dosi; e poi Moderna, 17 milioni di dosi che saranno disponibili dalla primavera. Nelle prossime settimane potrebbe arrivare l’approvazione da parte del regolatore britannico di altri due vaccini: Novavax (60 milioni di dosi ordinate), e Johnson&Johnson (30 milioni di dosi previste, ed è l’unico per il momento a prevedere una singola dose senza richiamo): ce n’è abbastanza per immunizzare tutta la popolazione due volte.

Nel corso di una campagna di immunizzazione cominciata sotto le telecamere di tutto il mondo e salutata come la più grande nella storia del servizio sanitario nazionale, medici, infermieri e volontari hanno vaccinato finora circa 9 milioni di persone, il 12% della popolazione. Solo Israele e Emirati Arabi Uniti hanno fatto meglio. Di contro, la Germania e l’Italia hanno immunizzato il 2,2% della popolazione. Numeri non certo lusinghieri per il blocco Ue, tra ritardi, accuse, problemi di approvvigionamento e una lite con Astrazeneca consumata in pubblico.

I “meriti” della Brexit
Secondo alcuni, Brexiteers ma non solo, molto del merito va alla Brexit. Il Daily Mail, quotidiano che per anni ha alimentato il sentimento euroscettico nel Paese, ha titolato: “La migliore pubblicità per la Brexit”.

Come sempre la realtà è più complessa, ma la Brexit ha dato al Paese libertà di azione per muoversi in maniera autonoma. Londra prima ha deciso di non partecipare al programma comune di approvvigionamento dei vaccini messo a punto da Bruxelles. Quando ha dato il via libera al vaccino Pfizer/BioNtech, il Paese, seppur formalmente uscito dalla Ue, faceva ancora a tutti gli effetti parte del mercato unico.

Londra ha optato per una procedura emergenziale disponibile per ciascuno degli Stati membri, ma senza la Brexit la decisione sarebbe stata diplomaticamente più complicata, tanto più per un Paese che fino al divorzio aveva ospitato l’Agenzia europea per il farmaco. Il governo, forte dei contratti già siglati con le compagnie farmaceutiche, ha dato prontamente il via alle iniezioni, affidando il programma al servizio sanitario nazionale – con vaccinazioni che procedono assai più spedite che non in Europa.

Una dura realtà per noi Remainers”, ha ammesso Stephen Bush del New Statesman, magazine di sinistra. Lionel Barber, ex direttore del Financial Times (quotidiano mai tenero sulla Brexit), ha twittato; “Cosa c’è che non va nella Brexit? La risposta è, moltissimo. Ma questa storia dei vaccini mostra cosa può fare una nazione agile e indipendente con un solido fondamento scientifico”. E ai Brexiteer ha rivolto una preghiera: “Non gongolate”.

Il pasticcio Irlanda del Nord
Su questo quadro è arrivato il pasticcio della decisione di Bruxelles di imporre controlli sui vaccini  prodotti nel continente e indirizzati in Irlanda del Nord. Lo ha fatto invocando una clausola nell’accordo sulla Brexit che consente alle parti di sospendere il principio del confine irlandese aperto in caso di “difficoltà economica, sociale o ambientale”. La clausola, l’articolo 16 del Protocollo sull’Irlanda del Nord, è considerata una sorta di “opzione nucleare”, e infatti ha immediatamente scatenato proteste a Belfast come a Londra e Dublino (quest’ultima nemmeno avvertita, sebbene la Repubblica d’Irlanda sia uno stato membro dell’Ue).  La decisione è stata revocata con un comunicato nella notte di venerdì, ma il danno era fatto.

Un danno su almeno due fronti: ha rafforzato l’impressione che la campagna vaccinale europea sia in preda al caos, alimentando i dubbi sulle scelte della Commissione, che ha firmato l’accordo con Astrazeneca tre mesi dopo Londra; e ha minato la fiducia, già bassa, tra Londra e Bruxelles in un momento delicato. L’Ue ha sempre ammonito la Gran Bretagna sulla necessità di rispettare il protocollo irlandese per garantire la salvaguardia degli Accordi del Venerdì Santo, eppure è stata proprio Bruxelles la prima a invocarlo, con apparente leggerezza e con un clamoroso errore di valutazione sulle conseguenze.

Un fallimento che gioca tutto a favore di Boris Johnson, la cui popolarità era in calo ma che adesso, almeno sui vaccini, può guardare l’Ue dall’alto in basso. Con saggezza politica, per una volta, è rimasto fuori dalle polemiche tra Commissione e Astrazeneca, e ha tenuto una reazione ferma ma composta sulla questione irlandese. Adesso il suo governo si offre addirittura di dare una mano agli alleati europei in difficoltà. Il successo di Londra non è privo di rischi (in primis la decisione di ritardare il richiamo per dare la prima dose a più persone possibile), ma per ora appare tanto più notevole se paragonato alla débâcle europea.

Verso un periodo di liti frequenti?
Naturalmente, i problemi della Ue non fanno necessariamente della Brexit una buona idea. Nascoste nelle pieghe della pandemia, che tutto occupa e tutto consuma, già si fanno sentire le ripercussioni del divorzio: scartoffie burocratiche che rallentano il flusso delle merci, prezzi aumentati, chili di pesce che vanno al macero, tasse doganali. Effetti di cui i britannici cominciano ad accorgersi, ma che per il momento passano in secondo piano rispetto alla pandemia e ai vaccini.

E il fatto che sia sorta una disputa aspra a meno di un mese dalla Brexit effettiva non lascia ben sperare per il futuro: andiamo incontro ad un periodo di liti frequenti tra Londra e Bruxelles? E il confine irlandese continuerà ad essere un punto focale?

La scommessa dei Brexiteer è di poter acquisire un vantaggio competitivo nell’agire più rapidamente, nel muoversi in maniera agile e indipendente. Ma se la success story dei vaccini possa considerarsi un modello per il futuro del Paese, e se possa essere replicata su altri piani, resta tutto da vedere.

Foto di copertina EPA/Andy Rain