Verso un rilancio del Wto e del commercio internazionale?
La decisione di Joe Biden a inizio mese di appoggiare la candidatura della nigeriana Ngozi Okonjo-Iweala a capo del Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio, è stato solo il primo passo per poter procedere alla rivitalizzazione dell’istituzione internazionale che presiede il sistema multilaterale degli scambi.
L’ex presidente Donald Trump aveva dato il colpo di grazia al Wto bloccando la candidatura dell’economista africana e soprattutto, in precedenza, paralizzando il funzionamento del meccanismo di risoluzione delle controversie con la mancata nomina dei giudici d’appello, accusati di eccedere il mandato, danneggiare i lavoratori americani e minare la sovranità Usa. Insofferente del multilateralismo, Trump aveva optato per un approccio bilaterale ove esercitare agevolmente la forza contrattuale della più grande economia del mondo. Prendendone atto, l’ex direttore generale del Wto, il brasiliano Roberto Azevêdo, si era dimesso anticipatamente in agosto.
Peccato originale
Va tuttavia riconosciuto che il Wto ha avuto una vita piuttosto travagliata fin dalle origini. Allora, l’Accordo di Marrakesh, alla fine dell’Uruguay Round nel dicembre 1994, avviò una liberalizzazione senza precedenti di merci, servizi, investimenti ed altro, concludendosi con un fondamentale quanto inevitabile compromesso tra economie avanzate ed economie più arretrate o in via di sviluppo. Queste, in cambio dell’adesione, hanno infatti ottenuto un trattamento preferenziale sull’applicazione delle nuove norme, in particolare sui sussidi, accesso ai mercati, standard, diritti dei lavoratori.
È stato il solo modo perché il Wto acquisisse portata universale e al contempo, nei calcoli dei Paesi dominanti dell’Occidente avanzato, per un’espansione verso immensi mercati di potenziali consumatori e futuri partner. Il retro-pensiero era inoltre che la liberalizzazione avrebbe gradualmente omologato i sistemi economici (e politici) favorendo ovunque nel mondo assetti aperti e democratici.Così non è stato.
La Cina è entrata nel Wto nel 2001 come Paese in via di sviluppo, e la sua economia rimane dirigistica. Né si era calcolato che in pochi anni i cosiddetti “emergenti”, in particolare Cina, India, e altri Paeesi con favorevoli condizioni economiche e culturali, avrebbero conquistato posizioni nei nostri mercati e al contempo beneficiato del flusso di investimenti esteri, sempre conservando lo status preferenziale loro accordato. Per i Paesi avanzati, lo scenario avrebbe comportato un massiccio deflusso di capitali, e pesanti conseguenze politiche e sociali. Il problema che affrontiamo oggi è uno scenario di concorrenza sbilanciata. Lo stesso che il Doha Development Round avviato più tardi, nel 2001, con l’obiettivo di un ri-equilibrio, ha tentato di correggere, arenandosi.
Le agende tra Ginevra e Bruxelles
Ngozi Okonjo-Iweala, prima donna e prima africana ad assumere la carica di vertice, eredita uno scenario problematico, di progressiva disaffezione dalle regole multilaterali, moltiplicarsi dei contenziosi, forte dissociazione dal meccanismo di risoluzione delle controversie, tendenza a frammentazione e regionalizzazione. Scenario aggravato dalla pandemia, che pone in primo piano il tema della circolazione di farmaci e vaccini, richiamando il dilemma tra gelosa difesa dei diritti di proprietà intellettuale e urgente fabbisogno del mondo meno avanzato (dove il virus avrebbe trascinato 88-115 milioni di persone sotto il livello di povertà, stime della Banca mondiale).
Biden, nell’assicurare appoggio al neo-direttore generale, e segnalare un rientro nel multilateralismo, ha delineato chiaramente l’obiettivo di “pervenire a riforme sostanziali e procedurali dell’Organizzazione”. Un rilancio del Wto è incluso anche nel programma di lavoro di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea.
La discussione a Bruxelles prende avvio in questi giorni. La Commissione ha elaborato uno schema di “adeguamento” delle regole all’evoluzione dell’economia mondiale e all’emergere di nuovi attori, con particolare riguardo ai sussidi riferiti alle imprese di stato (Cina in primis), al trattamento preferenziale (accordato agli ex-emergenti), alla sostenibilità ambientale e sociale (Agenda 2030), alle nuove tecnologie (digitalizzazione, Big Tech), e non ultimo al regolamento delle controversie (per incoraggiare l’accettazione del giudizio). Un approccio aperto al multilateralismo ma chiaramente assertivo in difesa dei propri interessi commerciali.
Una riforma urgente
La rivitalizzazione del multilateralismo non sarà impresa facile. Da scontare, le resistenze dei newcomers, Cina in primis, specie su sussidi e trattamento preferenziale, ma anche difficoltà tra Paesi avanzati, pensando ai contenziosi Ue-Usa su Airbus-Boeing o sull’acciaio e alluminio finora gestiti a suon di dazi reciproci, o ancora alle nuove discipline sul commercio elettronico, sul settore high-tech, o sul rapporto commercio-clima-energia.
La dipartita di Trump non ha dissipato le istanze dell’America profonda. Né la crisi in Europa potrà risolversi in breve tempo. Ma una riforma del Wto è urgente, prima che il sistema mondiale si sgretoli. Ciò non potrà realizzarsi senza la ripresa di un dialogo costruttivo tra Europa e Stati Uniti, in nome dei valori comuni e del comune interesse ad un ordinato andamento degli scambi, in particolare (ma non solo), con riguardo a Pechino.
Obiettivi: pervenire a regole condivise e al passo con i tempi, garantire un level playing field, ripristinare legittimità ed efficienza. L’auspicio è che il G20, guidato dall’Italia all’insegna dei propositi “People, Planet, Prosperity” e rafforzata dalla visione programmatica del nuovo governo presieduto da Mario Draghi, possa contribuire a far maturare i termini della riforma in tempo utile per la ministeriale Wto di dicembre.
Foto di copertina Epa-Efe/Martial Trezzini