“Costruire una nuova percezione della civiltà africana nel mondo”
Franck Hermann Ekra ha fondato ad Abidjan il think tank Lab’nesdem, laboratorio di innovazione e azione pubblica, nuova speranza sociale e democratica. Analista politico, consulente in strategia di immagine e critico d’arte, è stato consigliere responsabile della comunicazione internazionale della Commissione Dialogo, Verità e Riconciliazione della Costa d’Avorio.
Tra i promotori, insieme ad altri 50 intellettuali, dell’appello “alle forze vive dell’Africa contro la pandemia”, sprona a cogliere la paradossale opportunità offerta dall’emergenza sanitaria: costruire una nuova percezione della civiltà africana nel mondo. Chi annunciava catastrofi in Africa per l’impatto del virus si è dovuto misurare con una realtà diversa che ridisegna le relazioni.
“La pandemia da Covid-19 – spiega Ekra in questa intervista con AffarInternazionali – ci ha ricordato quanto l’universalità della condizione umana, umile e fragile, vada tenuta presente nella ridefinizione dell’ordine mondiale e nelle logiche della cooperazione. Lo spettacolo di un Occidente disorientato, messo sotto pressione dalla sua incapacità di curare, ridotto all’insufficienza produttiva di fronte alla carenza prima delle mascherine, poi dei vaccini, ha offerto agli africani uno specchio nuovo in cui riflettersi. Si è misurata la straordinaria resilienza delle società africane nel dispiegare una saggezza pratica, un’arte del fare, uno slancio solidale per sopperire alle mancanze, proprio quando invece l’Europa sembra procedere in ordine sparso”.
Trova ancora così coriacei i pregiudizi occidentali sull’Africa?
Sono perenni, radicati in cinque secoli di storia di conquista. C’è stato bisogno di costruire un racconto di legittimazione morale per giustificare l’immoralità di una trascorsa violenza inaudita e nascondersi dietro il paravento della “missione di civilizzazione”. Il tratto dominante di questo complesso si riduce ad ambivalenza, paternalismo versus infantilismo. Ora si può scardinare.
Cominciando da dove?
Intanto occorrerebbe imparare a parlare di Afriche, perché le situazioni sociali, economiche e politiche sono eterogenee. Alla luce delle logiche di partenariati commerciali e delle strategie di influenza degli attori stranieri, si trattano 54 Stati indipendenti, con interessi nazionali specifici, come fossero un corpo unico. Ma è scorretto. Certo con la moltitudine di forum bilaterali tra potenze medie e capi di Stato africani, si tende ad accreditare ancora questa concezione squilibrata.
Segni in controtendenza ne riesce a cogliere?
Ci sono chiari segni in controtendenza: l’inserimento dell’economia sudafricana a livello mondiale non ha più bisogno di essere dimostrato, l’Algeria è entrata in un processo di cambiamento accelerato. Questo grande Paese magrebino sembra ritrovare un desiderio di affermazione del suo ancoraggio continentale di fronte al suo vicino marocchino. Il Botswana, le Mauritius, e il Ruanda sviluppano esperienze originali che, pur con delle fatiche sul piano di modalità di governo, si possono offrire come esempio della protezione delle libertà individuali e collettive del pluralismo di opinione. Nell’Africa dell’Ovest la coscienza dell’interesse generale cresce sotto la pressione di movimenti cittadini che richiedono responsabilità sostenendo l’equa ripartizione dei beni e più giustizia sociale.
Lei ha promosso diverse azioni insieme ad altri intellettuali africani: ritiene che riescano a coinvolgere la popolazione tutta o restano iniziative per pochi, per élite?
Io credo che la separazione popolo/élite sia artificiale. Un luogo comune di discorsi sociali contemporanei, con derive populiste. Secondo me l’intellettuale è chi riflette in modo impegnato nella e con la città, con la coscienza acuta di dover difendere la società. Sono personalmente più vicino alla distinzione operata da Antonio Gramsci di un intellettuale organico, popolare che a quella dell’intellettuale alla francese, che interpreta la sua funzione come tribuno, con la mania della petizione. Una patologia corporativistica conosciuta con il neologismo di “petizionismo”. L’intellighenzia africana vive sul continente la stessa esperienza di vulnerabilità quotidiana dei suoi concittadini, anche se il suo capitale simbolico se ne distingue. Questo vissuto legittima il suo linguaggio e dona più acutezza al suo sguardo. L’intellettuale africano è dotato di una doppia coscienza oggettiva e soggettiva nello stesso tempo, come dicevano gli etno-metodologi della scuola di Chicago all’inizio secolo scorso, è un outsider dall’interno.

L’Unione europea ha in agenda la promozione decisa della partnership alla pari con l’Africa e mette al bando ogni idea diversa. La ritiene una strada percorribile?
Ritengo che debba essere l’Unione africana a definire le modalità di una visione integrale della cooperazione multilaterale e non i suoi Stati membri. Se isolati, questi ultimi non hanno risorse diplomatiche per fare accordi o negoziare qualsiasi tema. Tutti possono rilevare positivamente il cambiamento di tono della retorica dei nuovi dirigenti della Ue, ma bisogna andare oltre il rivestimento semantico e coperture cosmetiche, se si vuole riequilibrare la relazione e scrivere un’altra storia. Sul piano strettamente economico, passare dal registro dell’aiuto alla dimensione del partenariato suppone l’identificazione e il riconoscimento di interessi e di profitti reciproci. Sul versante politico infine, l’Ue dà troppo spesso l’impressione di servire da schermo, operatore delegato di potenze post-imperialiste per uscire da una relazione post-coloniale. Per questo la sua capacità di manovra è spesso ridotta. Le società africane valorizzano l’ethos della dignità, bisogna tenerne conto oggi più di ieri.
E il ruolo della Cina?
Gli europei si ingannano quando immaginano il mercato africano come una nicchia appartenente al loro spazio domestico, come una riserva di caccia bloccata da una storia comune, quella di un’interdipendenza plurisecolare. La curva demografica in ascesa dei Paesi africani relativizza questa fissazione. Il tratto marcato della globalizzazione è l’apertura di una competizione aggressiva e di un’accelerazione concomitante dei ritmi di mobilità dei flussi di comunicazione. Le immagini dei calvari migratori dei compatrioti invitano i poteri africani a riconsiderare le loro preferenze strategiche in direzione di partner più rispettosi, più aperti. La svolta neo-autoritaria di certi dirigenti sedotti dal potenziale di crescita e la dinamica di potenza di Pechino e Ankara creano nuovi equilibri. L’Europa deve semplicemente fare lo sforzo di comprendere le nuove condizioni per tornare ad essere attraente.
Nella foto di copertina EPA/KIM LUDBROOK un tuk-tuk passa davanti un’opera di street art in Sudafrica