“Tigri con le ali”: la politica nucleare cinese dopo Mao
Dalla morte di Mao nel 1976 e fino al 1985, che impatto ha avuto la fase di “transizione politico-strategica” sulla politica nucleare di Pechino? Lorenzo Termine, dottorando in Studi Politici presso il Dipartimento di Scienze Politiche di Sapienza Università di Roma, cerca una risposta nel suo libro “Tigri con le ali – La politica di difesa post-maoista e l’arma nucleare” (Aracne Editrice, 2021).
Perché questo tema?
La politica nucleare cinese è una questione della massima attualità. Dalla fine dei grandi accordi sul controllo degli armamenti e sul disarmo, alla rinnovata competizione strategica tra Washington, Pechino e Mosca, alle ambizioni nucleari di medie e piccole potenze regionali, le armi atomiche sono al centro del palcoscenico internazionale. Capire cosa pensa la leadership cinese della deterrenza nucleare è quindi cruciale per comprendere gli affari globali odierni e le future traiettorie strategiche.
Perché il tuo studio si concentra sull’evoluzione politica della Repubblica popolare cinese durante l’“epoca delle riforme”?
A partire dalla morte di Mao nel 1976 la Cina sperimentò una transizione epocale. La fazione denghista in ascesa, oltre all’integrazione di elementi di mercato e del commercio esterno nell’economia socialista propugnò una “transizione strategica”. Dall’allineamento con gli Stati Uniti per fronteggiare il comune nemico sovietico, Pechino passò alla “politica estera indipendente” nel 1982 e, infine, al “binario dello sviluppo pacifico” nella primavera del 1985. In ambito militare, le riforme comportarono il passaggio da una dottrina militare maoista di “guerra popolare” ad una di “guerra popolare in condizioni moderne” e, poi, di “guerra locale”.
In che modo la transizione vissuta a partire dalla morte di Mao ha influenzato la politica nucleare cinese?
In un primo momento (1976-1980), la politica nucleare di Deng Xiaoping ricalcò quella del periodo maoista. Dopo il 1980, da un lato essa venne subordinata alle impellenti esigenze economiche propugnate dalla fazione denghista che aveva fatto dello sviluppo nazionale la massima priorità politica. Pertanto, una postura nucleare coerente con il passato maoista e che prediligeva il second strike, l’occultamento e la mobilità dei vettori dovette apparire come una scelta decisamente più conveniente rispetto all’imbarcarsi in costosi programmi di ricerca e sviluppo di capacità di primo colpo o di difesa da missili balistici nemici. Dall’altro, la stessa esigenza economicistica rese possibili due sviluppi che rappresentano una cesura rispetto al passato maoista: le armi nucleari tattiche e la bomba al neutrone. Queste due innovazioni non furono solo tecniche ma anche – e in maniera ancora più interessante – dottrinali.
Cosa ha significato la morte di Mao nella storia della Cina comunista?
Quando nel 1976 il Grande timoniere Mao spirò, la Repubblica popolare cinese perse il proprio fondatore, il presidente dell’unico partito al potere, il “salvatore del popolo”, il Presidente della Commissione militare centrale e l’elemento che teneva insieme le due opposte fazioni che la Rivoluzione culturale, quel terremoto politico-sociale promosso dallo stesso Mao a partire dal 1966, aveva contribuito a far emergere nell’apparato istituzionale del paese. La sua eredità ideologica comportava alcuni vincoli pesanti per la politica estera e di difesa.
Quali furono i fattori che condizionarono le scelte strategiche della dirigenza cinese post-maoista?
Nel libro sottolineo le tre dimensioni fondamentali con cui si confrontò la leadership post-maoista nell’elaborare le nuove linee guida di politica estera e di difesa: i) l’agone internazionale, in cui da uno stato di allerta strategica verso la minaccia sovietica Pechino passò ad una graduale ripresa delle relazioni diplomatiche e ad un allentamento delle tensioni con Mosca; ii) il fronte interno in cui la competizione tra fazioni si risolse progressivamente a favore della leadership denghista; iii) la frontiera economico-tecnologica che poneva vincoli pesanti a politiche estere e di difesa innovative o che implicavano processi di modernizzazione massiccia.
Quale fu la strategia di difesa di Deng Xiaoping e quale la sua politica nucleare? Che discontinuità portò rispetto all’era maoista?
Il lavoro analizza come la storica transizione politico-strategica di Pechino tra il 1976 e il 1985 abbia influenzato la politica nucleare nazionale e quali siano stati gli elementi più importanti di continuità o di discontinuità con il passato maoista. E lo fa perché la letteratura storica o politologica sembra aver accettato che nei tardi anni Ottanta la postura nucleare cinese non fosse cambiata troppo da quella di vent’anni prima o dell’inizio degli anni Settanta. Tuttavia, la profonda torsione politica, economica, strategica e ideologica occorsa durante le “riforme” provocò un cambio anche nella politica nucleare cinese, cambio che ci dice alcune cose interessanti del decision-making militare cinese.
Come si modificò la governance del Paese in quel periodo?
Per quanto riguarda la politica estera e di difesa che più direttamente è analizzata nel volume, il periodo 1976-1985 conobbe una graduale istituzionalizzazione e formalizzazione dei processi decisionali nella Repubblica popolare con il risultato di determinare importanti cambiamenti nella governance del Paese. Per quanto riguarda la politica estera, tra il 1977 e il 1985, la competenza passò da un gruppo ristretto di funzionari subordinato al placet di Mao ad alcuni organi e strutture amministrative specificatamente designate a tale compito. Parallelamente, in ogni ambito di decisione, la politica cinese sperimentò una dinamica di professionalizzazione. I vertici militari nell’Esercito e nella burocrazia della difesa divennero sempre più qualificati e istruiti in conseguenza dell’istituzione di nuovi organi di addestramento e formazione degli ufficiali.
Quando e in che modo la Cina ha cominciato ad aprirsi al commercio internazionale?
A partire dal dicembre 1978, a quattro zone economiche speciali fu permesso di costruire nuovi porti e regolamentare autonomamente la penetrazione delle merci straniere nei rispettivi distretti. Contemporaneamente, il Partito comunista designò 25 imprese statali che, sotto la supervisione del ministero per il Commercio, potevano esportare una quota prestabilita dei loro prodotti ed importare liberamente i fattori produttivi. Dal punto di vista militare, l’apertura al mondo consentì a Pechino – seppur in maniera limitata e decisamente inferiore a quanto i paesi occidentali si aspettassero – di acquisire dall’estero le tecnologie e le piattaforme di cui l’esercito aveva bisogno. Inoltre, il miglioramento delle relazioni tra la Cina e i paesi più sviluppati permise alla Cina di comprendere quale fosse il livello della tecnologia militare e dei progressi scientifici raggiunti all’estero e di acquisire piena consapevolezza della propria arretratezza.
Perché la regione dell’Indo-Pacifico sta avendo in questo momento una crescente attenzione?
La regione dell’Indo-Pacifico è stata sempre al centro delle vicende internazionali. Durante la Guerra fredda fu uno dei centri nevralgici del containment ispirato alla teoria del domino. Oggi la cavalcata economica di molti dei Paesi asiatici – tra cui una Cina parzialmente insoddisfatta di come si svolge la vita politica regionale e globale e che accumula sempre più potere nazionale – ne ha fatto un hub commerciale, tecnologico e finanziario a cui si aggiunge un mosaico di popoli, culture e rivendicazioni politiche che rendono l’area decisiva.
Foto di copertina EPA/ROMAN PILIPEY