Colpe e rimpianti europei in Afghanistan
Probabilmente la migliore analisi sul disastro afghano è riassunta nel passo evangelico dell’adultera condannata alla lapidazione, che evita la sua triste fine grazie al riconoscimento di colpa dei suoi giustizieri (Vangelo secondo Giovanni 8,1-11). Mutatis mutandi, quale Stato o organismo internazionale che si sia occupato delle vicende di questo martoriato Paese può ritenersi esente da responsabilità?
Tra questi anche l’Unione europea, la cui principale colpa sta nella cronica marginalità, figlia della mancanza di effettivi poteri, che ha contraddistinto il suo coinvolgimento in Afghanistan.
Conta il pensiero (forse)
In realtà, però, se si approfondisce anche sommariamente il ruolo svolto dall’Unione, emerge un quadro se non lusinghiero, perlomeno denso di buoni propostiti in parte anche realizzati.
L’impegno dell’Unione in Afghanistan non è dell’ultima ora. Tralasciando il periodo antecedente alla caduta del regime degli “studenti coranici” dopo l’attacco dell’11 settembre, già nella Conferenza di Bonn del 2001 le istituzioni europee avevano dato vita al Rapid Reaction Mechanism per sostenere i primi sforzi del neonato governo post-talebano. Poi nelle conferenze di Tokyo 2002 e di Berlino 2004 la Ue ed i suoi Stati membri stanziarono 3,1 miliardi dollari, ossia oltre il 30% dell’interno ammontare in aiuti finanziari ricevuti dal Paese asiatico.
Per tentare di garantire il corretto utilizzo di tali fondi, Bruxelles varò una serie di atti programmatici, tra cui: il Country Strategy Paper: Afghanistan 2007–2013, l’Accordo del febbraio 2017 Ue-Afghanistan di cooperazione per la partnership e lo sviluppo, ed il Multiannual Program for Afghanistan (2014–2020) firmato dalla Commissione europea, che ha portato l’impegno della Ue in termini finanziari a circa 5 miliardi di dollari nel periodo 2002-2020.
Curare la pace
Questi sforzi hanno condotto al perseguimento di alcuni esiti indubbiamente positivi. Tra questi possiamo ricordare: le 1.378 strutture sanitarie attivate in 34 province afghane; la creazione di due reti, una di 6 centri di sviluppo dell’orticoltura perenne e l’altra formata da 1.100 unità veterinarie in tutto il paese; il sostegno nella gestione di paghe e stipendi di circa 124.000 dipendenti del ministero dell’Interno dedicati al mantenimento dello stato di diritto; la duplicazione della capacità di riscossione delle entrate governative, che sono passate da 1,3 miliardi di dollari nel 2015 a 2,7 miliardi di dollari nel 2019; il sostegno a mezzo milione di persone che hanno fatto rientro in Afghanistan e altri atti di cooperazione e sostegno.
Anche se quelli citati non sono elementi che segnano una normalizzazione democratica, rappresentano tuttavia un parziale e difficoltoso cammino verso un’auspicabile direzione. Percorso che si è bruscamente e tragicamente interrotto nell’agosto di quest’anno, quando i frutti avvelenati della Conferenza di Doha del febbraio 2020 sono stati raccolti dai successori del regime talebano del 2001.
Summit dal quale, è bene ricordarlo, non solo l’Unione europea era assente, ma lo era anche e in particolare il governo afghano in carica, che ne è uscito gravemente delegittimato soprattutto agli occhi del suo popolo. L’intesa che ne è scaturita (infaustamente denominata Accordo per riportare la pace in Afghanistan) prevedeva il ritiro di tutte le forze Nato entro poco più di un anno e l’avvio di un confronto pacifico tra il governo afghano ed i talebani.
“Guai a voi, farisei!”
Come noto l’Accordo non è stato rispettato e vent’anni di sforzi, soprattutto europei, per edificare un regime civile e democratico sono stati vanificati.
Ed è proprio guardando all’Accordo di Doha che si delinea con chiarezza la principale colpa dell’Europa. Quella di non essere mai stata in grado di avere voce in capitolo sul piano politico, limitandosi a svolgere il ruolo che più le è congeniale: quello di potenza civile. Nel caso dell’Afghanistan però – come in molti altri contesti – questo non è sufficiente. Anzi rischia di mandare in fumo gli impegni finanziari ed organizzativi realizzati in decenni ed i relativi risultati. In un paese come l’Afghanistan, nel quale il 40% della forza lavoro è disoccupata, il 90% delle attività economiche sono informali, l’analfabetismo affligge oltre il 60% della popolazione e la principale fonte di reddito è costituita dalla produzione di droga ( come cita il lavoro di B. Thibaut Denis Afghan Opium and the EU: Fighting the War Economy through Development Cooperation), puntare sulla contrapposizione militare per ottenere sicurezza e democrazia non appare la soluzione vincente. Questa tuttavia è stata la linea prevalente (e costosissima) perseguita dagli Usa negli ultimi venti anni.
A questo riguardo sono illuminati le parole del presidente Biden secondo il quale la presenza americana in Afghanistan era legata al perseguimento di due obiettivi “one, to bring Osama bin Laden to the gates of hell [..] The second reason was to eliminate al Qaeda’s capacity to deal with more attacks on the United States from that territory. We accomplished both of those objectives“: “il primo, trascinare Osama bin Laden alle porte dell’Inferno. In secondo luogo, eliminare la capacità di al Quaeda di organizzare più attentati contro gli Stati Uniti da quei territori. Abbiamo soddisfatto entrambi questi obiettivi”. Da qui la decisione del totale disimpegno.
Del tutto differente la visione europea, riassunta da ultimo dalla dichiarazione della Presidente Ursula von der Leyen in occasione di un vertice del G7: “It is our moral duty to help the Afghan people and to provide as much support as possible as conditions allow. The situation is indeed a tragedy for the Afghan people and it is a major setback for the international community”. Ovvero, “Si tratta di un dovere morale per noi, aiutare il popolo afghano e fornire più supporto possibile secondo quanto permettono le condizioni. La situazione è veramente tragica per questo popolo ed è una pecca enorme per la comunità internazionale”.
L’insostenibile debolezza dell’essere (europei)
Come noto, purtroppo, gli intenti europei non hanno prevalso sull’opposta visione americana. E ciò è dipeso essenzialmente da quel vizio di origine al quale si alludeva al principio: l’insostenibile debolezza che caratterizza la politica estera della Ue.
Limite imputabile alla persistente volontà degli Stati membri di conservare ciascuno la propria quota parte nel decidere strategie nazionali di piccolo cabotaggio, che inesorabilmente condanna loro e le istituzioni di Bruxelles ad interpretare un ruolo del tutto marginale. Nonostante i nostri interessi e quelli del mondo intero spingano verso una ben altre direzioni.
Foto di copertina ANSA/ Photo by Petty Officer 2nd Class Kaila Peters/ U.S. Naval Forces Europe-Africa/U.S. Sixth Fleet