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Autonomia strategica Ue

Afghanistan: un test per la credibilità dell’Europa

25 Ago 2021 - Ferdinando Nelli Feroci - Ferdinando Nelli Feroci

Il dramma che si sta svolgendo in Afghanistan era ampiamente prevedibile. E poteva forse essere evitato se le due successive Amministrazioni americane direttamente coinvolte nell’operazione avessero adottato una pur inevitabile “exit strategy” dal Paese meno affrettata e meno irresponsabile. Va chiarito però che l’epilogo inglorioso di venti anni di presenza americana, e degli alleati della Nato, in Afghanistan nasce dalla pur comprensibile volontà di Donald Trump di porre fine ad una missione di cui non si riusciva più a individuare finalità e obiettivi, che costava troppo e che non godeva di sufficiente sostegno nel Congresso e nell’opinione pubblica americana. Joe Biden e la sua Amministrazione hanno la colpa di avere gestito nel peggiore dei modi la conclusione di una vicenda il cui esito era già stato ipotecato dalla Amministrazione precedente.

Ma rileggere oggi (con il senno di poi) quelle parti degli Accordi di Doha tra Usa e Talebani del febbraio 2020 che sono state pubblicate lascia francamente sconcertati e sgomenti. Le quattro pagine scarse che si possono trovare sui siti dell’Amministrazione Usa descrivono  una sorta di resa senza condizioni di una grande potenza ex imperiale di fronte a milizie armate combattute per anni, accompagnata da poco credibili garanzie sull’esecuzione delle condizioni del ritiro di americani e alleati, e con solo vaghe indicazioni su un ipotetico processo negoziale che i Talebani avrebbero dovuto avviare con il governo legittimo di Kabul e con le altre componenti della società afghana.

Pochi dubbi, quindi, che le responsabilità principali della disfatta Usa in Afghanistan siano di Trump, del suo Segretario di Stato Mike Pompeo e del negoziatore capo degli accordi Zalmay Khalilzad. C’è solo da augurarsi che il Congresso Usa apra rapidamente una inchiesta sulle responsabilità per quegli Accordi,  faccia piena luce sulle parti meno note di quelle intese, e su colpe e mancanze. Oltre che sulle  responsabilità della attuale Amministrazione per la pessima gestione della fase di esecuzione di quelle intese.

Riconoscere le responsabilità americane, che vengono da lontano e che si proiettano sul futuro disegnando un Paese sempre meno intenzionato a operare come la potenza egemone di un tempo, sempre meno disponibile ad assumersi responsabilità globali e sempre più concentrato su priorità della agenda domestica, non esime però gli alleati europei degli Stati Uniti da un qualche serio esame di coscienza.

Abbiamo seguito gli americani in Afghanistan per una serie di motivi, comprensibili all’inizio, ma sempre meno giustificati via via  che la missione proseguiva (nelle sue componenti militare e civile): la solidarietà con l’alleato colpito al cuore dagli attentati dell’11 settembre 2001; la determinazione ad eliminare un santuario del terrorismo jihadista; ma poi anche l’illusione di costruire in Afghanistan una società e delle istituzioni ad immagine e somiglianza delle nostre. E in questo processo abbiamo sostanzialmente seguito le decisioni e le scelte strategiche dei nostri alleati americani, senza troppo preoccuparci di tutelare interessi autenticamente europei. In fondo per gli europei l’unica vera preoccupazione strategica era quella di rimanere allineati con Washington, e di evitare che l’Afghanistan tornasse ad essere un santuario di formazioni collegate al terrorismo islamico. E senza pretendere di “esportare” il nostro modello di democrazia, ci eravamo illusi di riuscire a rendere l’Afghanistan un po’ più simile ad un Paese moderno.

Oggi però la clamorosa perdita di credibilità di un presidente americano, il cui arrivo alla Casa Bianca aveva suscitato grandi speranze e aspettative negli alleati europei, e il rischio che il vuoto lasciato in Afghanistan dagli americani e dai loro alleati europei apra inattesi spazi di manovra a Cina, Russia, Turchia e altri Paesi “difficili” sono fonti di più che legittime preoccupazioni per l’Europa. E tutto questo avviene in un contesto in cui l’Unione europea, ancora impegnata in una faticosa ricerca di un suo protagonismo sulla scena internazionale, è lontana anni luce dall’aver dato sostanza e contenuto alla sua annunciata ambizione geopolitica e ancor meno ad una sua chimerica autonomia strategica.

La crisi della leadership americana, emersa in tutta la sua drammaticità in Afghanistan, potrebbe quindi essere un ennesima buona occasione per rilanciare una proiezione internazionale della Ue all’altezza delle potenzialità del Vecchio Continente. Ma da dove si dovrebbe ripartire?

Per cominciare, e senza rimettere in discussione la scelta di campo a fianco degli alleati e partner americani, gli europei dovrebbero pretendere maggiore condivisione sulle scelte di fondo della Amministrazione Usa, in particolare quando queste scelte hanno ricadute dirette sulla sicurezza e sugli interessi dell’Europa. La stessa partecipazione degli europei alla gestione della Nato andrebbe ripensata con l’obiettivo di assicurare una maggiore corresponsabilizzazione degli alleati europei nelle decisioni comuni.

La scelta della autonomia strategica europea resta valida, ma per ora solo “sulla carta”. E dovrà essere realizzata con tutto il realismo e la gradualità che le circostanze consigliano. Nessuna pretesa quindi giocare la carta di questa obiettivo in funzione di una presunta emancipazione dall’alleato americano; consapevolezza che nel campo della sicurezza e della difesa resta ancora moltissima strada da percorrere (ammesso che ce ne sia la volontà politica); e analoga consapevolezza che la partita si gioca su numerosi altri terreni di gioco (energia, clima, commercio internazionale, tecnologie abilitanti ecc.).

Va bene quindi proseguire (con realismo) su un percorso di rafforzamento della proiezione internazionale dell’Unione europea. Ma nell’immediato la credibilità dell’Europa si andrà a verificare, fin dai prossimi giorni, su due temi tanto politicamente sensibili quanto urgenti: il trattamento da riservare agli afghani che lasceranno il loro Paese per cercare asilo anche in Europa, e il rapporto con il governo che si sta insediando a Kabul.

Riuscire a definire una posizione comune su quanti cittadini afghani accogliere in Europa e a quali condizioni; e riuscire a mettersi rapidamente d’accordo su alcune condizioni minime irrinunciabili per avviare una qualche forma di interlocuzione con i Talebani al potere a Kabul (in attesa di verificare se si potrà arrivare a un riconoscimento oggi assolutamente prematuro), sono due premesse necessarie perché l’Europa possa svolgere un ruolo di un qualche peso in Afghanistan (al di là delle gestione dell’emergenza) e più in generale in una regione dove altri attori (non necessariamente graditi) si stanno attrezzando per riempire il vuoto lasciato dagli americani. E a giudicare dalle prime esternazioni pubbliche di vari leader europei non sarà impresa facile.

Foto di copertina EPA/FILIPPO ATTILI