Cooperazione internazionale: l’esempio di Teddy e Sharon
Al tempo in cui in politica, e non solo in Italia, ottiene maggior consenso chi sventola la bandiera del “prima veniamo noi e i nostri figli, poi gli altri”, vale la pena fermarsi un momento a comprendere quale sia il senso della cooperazione internazionale e se convenga continuare a investirci risorse. È un mondo che sta cambiando e chiede di essere osservato criticamente in tutte le sue componenti, antiche e nuove, prima di salire sulle barricate e consumarsi in contrapposizioni sterili.
Negli ultimi anni l’impegno mondiale per lo sviluppo dei Paesi più poveri e delle fasce più fragili della popolazione si è dato una cornice, l’Agenda 2030, che ormai costituisce un termine di paragone non solo per donatori e ong, ma per tutti, dalle istituzioni internazionali fino alle scuole di quartiere. La sua efficacia risiede nell’approccio integrale: ogni obiettivo è integrato e connesso all’altro, investe tutti ed è trasversale al Nord e al Sud del mondo, non più pensabili come contrapposti – ricco il primo, povero il secondo – bensì sempre come connessi e interdipendenti.
Ma se l’Agenda è uno strumento necessario per un lavoro comune (ormai non ne possiamo più fare a meno anche solo per pensare lo sviluppo nelle relazioni internazionali e locali), non si può considerare sufficiente se non arriva a comprendere fino all’ultima singola persona. Paradossale ma sperimentato: se non si applica fino a comprendere l’uomo, la donna o il bambino più vulnerabile, cioè se non si riempie il gap dell’”ultimo miglio”, tutta l’architettura ben congegnata dei 17 goals globali va in frantumi.
Da uno slum di Kampala alla scena europea dello ‘Women empowerment’
Più che dirlo a parole, hanno comunicato questo dato per osmosi con la loro presenza agli European Development Days del 5 e 6 giugno scorsi, una signora e una ragazza di uno slum Kampala: Teddy Bongomin e Sharon Akido, di 45 e 20 anni, invitate a portare la loro testimonianza al forum sulla cooperazione più importante in Europa, promosso dall’Ue e dedicato quest’anno al “women empowerment”. Ebbene “l’ultimo miglio” delle cooperazione ha assunto a Bruxelles i loro volti. Con i colori e il piglio energico ugandesi hanno raccontato a interlocutori di ogni parte del mondo come è avvenuto il loro “empowerment”. Una parola che per altro non hanno mai avuto bisogno di pronunciare.
Il percorso di Teddy è simile a quello di migliaia di donne in Africa, salvo che a un certo punto è intervenuto un incontro particolare, da cui un cambio di passo. Era una giovane mamma, picchiata dal marito spesso ubriaco, che si ritrova da un giorno all’altro senza nulla: il marito muore, la famiglia di lui le porta via la casa e tutti i beni. A quel punto, sola, senza risorse, incrocia il Meeting Point Internationl, una realtà locale di accoglienza di donne sole con figli, malate di Aids. Qui comincia a essere inserita in una nuova rete di rapporti, in una serie di attività, gruppi di risparmio e di formazione; riceve cure mediche, educazione e riprende in mano la sua vita. Non è il puro inserimento in un progetto di sviluppo dall’ottimo quadro logico che funziona, ma la possibilità per lei di entrare in una proposta multisettoriale che risponde ai bisogni essenziali di beni e di cura, ma soprattutto a una domanda di senso. “Quando hai subito violenza ripetutamente, abusi di ogni genere – spiegava Teddy a Bruxelles –, arrivi a pensare di coincidere con un nulla. Ma se incontri chi ti fa comprendere all’interno di un rapporto personale, nei fatti, per come ti guarda e si pone con te, che tu vali, che non sei solo un costo sociale, la tua vita cambia. Se sai che sei un bene a prescindere, se ti è riconosciuto un valore per il solo fatto che sei al mondo, capisci che non sono le circostanze anche poverissime o la malattia che ti definiscono e puoi ripartire e viverla da protagonista”.
La chiave offerta da Teddy è rilanciata anche da Sharon, che ha potuto frequentare la scuola primaria e secondaria grazie al sostegno a distanza di famiglie italiane e ora si prepara a studiare economia all’università. Intende avviare un’impresa e così restare nel suo Paese e coinvolgere altri giovani come lei nel lavoro: “Ero perplessa, demotivata, sapevo che da noi tutto spinge le ragazze a vendersi per trovare un lavoro. Ora dico che il denaro è importante, ma non è importante. I ricchi possono dire che non è importante, perché ce l’hanno. Ma i poveri sanno che serve. Solo che io sono più importante del denaro: il denaro non può comprare me”.
Le componenti di successo di un programma ben riuscito
Se questo è l’impatto di un programma di women empowerment riuscito, quali sono le sue componenti di successo?
In prima istanza il coinvolgimento delle organizzazioni della società civile che lavorano proprio nel tratto dell’ultimo miglio della cooperazione internazionale e quindi svolgono il ruolo di cerniera tra i sistemi dei progettisti e donatori, da una parte, e la realtà sul campo, dall’altra. Il compito di una relazione con le persone più fragili è in genere svolto dalla comunità di appartenenza che tendenzialmente si organizza in strutture di servizio, primo germe di un’organizzazione articolata. Queste concorrono a creare un contesto nel quale la persona, anche la più debole, non si percepisce come isolata, ma riconosciuta nei suoi bisogni più immediati e quotidiani, e quindi accompagnata verso una valorizzazione. Grazie a un rapporto inclusivo, le organizzazioni della società civile sono “attivatrici di reti” ma non possono muoversi da sole, soprattutto oggi nel sistema globalizzato di equilibri economico-finanziari. È infatti divenuta fondamentale la collaborazione tra tutti i soggetti investiti dalla sfida dello sviluppo, come prevede il SDG 17: global partnership come metodo di lavoro.
Teddy e Sharon da “left behind” sono divenute protagoniste: grazie alla collaborazione tra MPI, organizzazione locale, AVSI, ong internazionale, donatori diversi e settore privato, le due donne insieme ad altre duemila sono riuscite a prendere in mano la loro vita, a diventare a loro volta sostegno per persone fragili, a costruire una scuola dove mandare i propri figli, a mettere in moto un processo di consapevolezza di sé per cui possono ora volare a Bruxelles e offrire ai tecnici la loro esperienza per ispirare nuove policy.
E si tratta di due donne appunto: la loro testimonianza ha una sorta di doppia valenza, dimostra quanto l’investimento nel women empowerment abbia una capacità “generativa” per tutta la comunità. La cooperazione che adotta questo metodo ha in sé la forza di accrescere effettivamente il potere (power) delle donne coinvolte. Non le aiuta solo a diventare buone casalinghe, abili nella gestione del denaro o (come prevedono ancora molti progetti tradizionali, un filo in stile patriarcale) sarte o parrucchiere, ma anche ad avere quella capacità di sedersi davanti al più alto funzionario che si occupa di gestire i fondi della cooperazione dell’Ue e dirgli che a loro, a Kampala, non interessano finanziamenti a pioggia, ma partnership alla pari.
Questo ‘potere’ femminile introduce una discontinuità nel tessuto culturale, sociale ed economico, è risorsa straordinaria per le comunità e il Paese, avvia stabilità economica e apertura di possibili mercati nuovi, interessanti anche per i Paesi che si interfacciano con loro. Come il nostro.
Questo è il tipo di aiuto allo sviluppo nel quale vale la pena investire. Non è a perdere, neanche a saldo zero, perché ci guadagniamo tutti. Il problema è che finché urliamo uno contro l’altro “prima noi – no prima loro”, perdiamo di vista l’orizzonte più ampio verso cui conviene a tutti dirigersi. In questo viaggio, come sistema Italia, ci siamo guadagnati un posto in prima fila, non cacciamoci da soli nell’ultima. O nel rimorchio.