Londra e l’Africa: scenari post-Brexit
Il fatto che rinvigorire i rapporti tra il Regno Unito e l’Africa fosse una tappa necessaria sulla strada della Brexit l’aveva capito anche Theresa May, spinta a visitare Sudafrica, Nigeria e Kenya nell’estate del 2018. Il rilancio delle relazioni, però, per adesso appare rigido almeno quanto i balletti in terra africana della ex premier.
Chiaramente, il Regno Unito ha evidenti rapporti storici e privilegiati con molti Paesi africani, così come a livello globale con i 53 paesi del Commonwealth. Allo stesso tempo, gli Stati africani hanno oggi più di un’alternativa per partnership, investimenti e cooperazione. Come si sta muovendo il governo di Sua Maestà oggi in questo contesto? A prima risposta, viene da dire che sta pagando un po’ d’ansia di aprire in fretta nuove piste post-Brexit e rischia di muoversi in modo poco lungimirante, a partire dalle scelte che sta facendo su investimenti e cooperazione allo sviluppo.
Effettivamente, di lungimiranza verso l’Africa Londra nel recente passato ne ha avuta poca. Certo, Boris Johnson nei suoi due anni da ministro degli Esteri ha visitato il continente 11 volte, con buona pace dei suoi approcci coloniali di inizio millennio. Se consideriamo però il decennio 2008-2018, la leadership britannica ha preso l’aereo verso l’Africa soltanto 23 volte e il viaggio precedente a quello di Theresa May del 2018 era (di David Cameron) del 2013. Nel frattempo, i leader del governo cinese avevano visitato 43 Paesi del continente.
Quali investimenti in Africa?
In questo quadro, il 20 gennaio scorso si è svolto a Londra l’Uk-Africa Investment Summit 2020. Cercando di recuperare il tempo perduto e accelerare i tempi, il governo britannico ha annunciato al summit investimenti e iniziative per 1 miliardo e mezzo di sterline, compresi 350 milioni per infrastrutture. Allo stesso tempo, Londra ha chiuso accordi commerciali con 12 Paesi e con le regioni economiche del Sud ed Est Africa.
C’è però effettivamente una mancanza di lungimiranza nel comportamento di Londra. A più riprese, ha ribadito da una parte il suo impegno e interesse per il continente, ma, dall’altro, al summit sono stati invitati soltanto 21 dei 54 Paesi del continente: meno della metà. La logica non appare chiara e rischia di rilanciare gli investimenti soltanto dove, in realtà, i canali sono già stabiliti. Lo stesso summit rischia di essere un evento una tantum senza grande continuità.
In una lettera aperta, inoltre, 12 organizzazioni della società civile hanno criticato il governo di interessarsi soltanto degli interessi di business britannici e non dello sviluppo africano, tra l’altro finanziando ospedali e scuole private e non servizi pubblici e accessibili a tutti.
Un ulteriore aspetto che ha suscitato dibattito è legato agli investimenti in energie non rinnovabili. Mentre, infatti, il governo dichiarava al summit che non avrebbe investito in carbone, investimenti in gas e petrolio facevano la parte del leone, contraddicendo altri impegni sul fronte della lotta ai cambiamenti climatici.
Il futuro cooperazione allo sviluppo con Bruxelles
Tra investimenti e supporto allo sviluppo sembra regnare confusione, ben rappresentata dallo scambio a distanza dei giorni scorsi sulle colonne del Guardian tra Tony Blair e il giornalista Peter Beaumont. Mentre Blair, nel giorno del lancio dell’Uk-Africa Investment Summit, snocciolava le sue classiche ricette neoliberali con toni salvifici, Beaumont poche ore dopo lo criticava sotto vari aspetti, tra i quali la visione di una quarta rivoluzione industriale che dovrebbe sradicare la povertà.
Non stanno mancando, tra l’altro, i tentativi della development community di tenere ancorata in qualche modo Londra a Bruxelles sulla cooperazione allo sviluppo. Simon Maxwell, storico volto della cooperazione inglese, è convinto che un accordo sullo sviluppo sarebbe una soluzione win-win. “I problemi che affrontiamo non possono essere risolti senza cooperazione internazionale: i cambiamenti climatici, la degradazione ambientale, la prosperità di tutti nella globalizzazione, i conflitti”. Ma, allo stesso tempo, “partnership non può significare una parte subordinata alle procedure e alle responsabilità dell’altra, ma azione e obiettivi comuni su sfide come la crescita in Africa”.
Tutto questo dipenderà dalla volontà politica di entrambe le parti, ma anche dai possibili cambiamenti del governo britannico, come la possibilità ventilata di far convergere lo storico Department for International Development (Dfid) nel Foreign and Commonwealth Office. Un’ipotesi che probabilmente non aiuterebbe l’emergere di ragionamenti innovativi sulla cooperazione allo sviluppo. E, intanto, i Paesi africani difficilmente rimarranno a guardare e ad aspettare il Vecchio continente.