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Il Pniec e i primi passi del Green Deal

Ecco la politica energetica e climatica dell’Italia

25 Gen 2020 - Margherita Bianchi, Riccardo Antonucci - Margherita Bianchi, Riccardo Antonucci

L’Italia ha finalmente consegnato la versione definitiva del Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (Pniec), il documento nel quale si stabiliscono gli obiettivi 2021-2030 sui diversi pilastri della politica energetica e climatica.  Il piano era stato presentato nella sua versione abbozzata un anno fa, e dopo un’attenta revisione da parte della Commissione europea se ne richiedeva entro la fine del 2019 la versione definitiva. L’Italia non è però l’unica ritardataria, in buona compagnia con un’altra decina di altri stati membri.

Bruxelles dovrà ora stabilire se il documento presentato da ciascun Paese è coerente con gli obiettivi comunitari al 2030, anche nella prospettiva di ‘neutralità climatica’ condivisa dai governi nazionali (tranne, per ora, la Polonia) per il 2050. Col Green Deal, l’Europa punta a zero emissioni accrescendo al contempo la propria competitività: una sfida esaltante ma certo non una passeggiata, in primis per i costi e gli ostacoli sul piano interno.

Pniec italiano, conferme e novità
Il piano integra le novità della legge di bilancio e del ‘decreto clima’. Rispetto alla bozza, restano invariati i target sull’efficienza energetica e le emissioni. Se da una parte resta uguale anche l’obiettivo al 55% per le rinnovabili nel settore elettrico, se ne prevede una quota più ampia nei settori riscaldamento e raffreddamento (+0.9%) e trasporti (+0.4%).  Il governo vede poi al rialzo le previsioni per la mobilità elettrica con l’impegno di introdurre quote obbligatorie anche nel trasporto pubblico.

L’obiettivo del cosiddetto phase-out del carbone – tema caldo a livello europeo – resta al 2025, ma rimane subordinato alla realizzazione degli impianti sostitutivi e delle necessarie infrastrutture, nonché al raggiungimento di risultati migliori sul lato efficienza energetica e rinnovabili. Questa rimane questione delicata nel nostro Paese soprattutto per la Sardegna, per cui il Mise ha avviato un tavolo di lavoro tecnico specifico.

Il ministro dell’Ambiente Sergio Costa si è detto pronto ad accrescere l’ambizione di fronte a target comunitari presumibilmente più alti in futuro – e la normativa europea prevede infatti una revisione dei piani al 2023, ragionevolmente riorganizzati in chiave Green Deal -.

28 pezzi del puzzle, un difficile incastro europeo
Le specificità energetiche, territoriali e sociali di ogni Stato e le conseguenti difficoltà che hanno (ancora) i Ventotto a procedere coerentemente verso un unico obiettivo non sono poche. Numerosi sono gli scontri sul tema, come quello tra Parigi e Varsavia: la Polonia ha negato il proprio supporto all’obiettivo di neutralità climatica, affermando di voler tornare sull’argomento a giugno di quest’anno; il presidente francese Emmanuel Macron ha per questo risposto che la Polonia potrebbe non avere accesso agli aiuti finanziari previsti dal Green Deal.

Altro terreno di scontro è il nucleare, che molti vorrebbero all’interno di piani europei per sostenere l’energia pulita; o le priorità di sicurezza energetica – si pensi alla saga Nord Stream 2, che sembra non finire mai. Gli eterogenei interessi europei rallentano quindi il processo e continuano a trasparire nei piani nazionali, ma le raccomandazioni mandate durante l’anno a ciascuno stato fanno ben sperare che questi siano perlomeno più coerenti rispetto alle bozze – aspetteremo gli ultimi ritardatari per tirare le somme.

Undici giorni dopo il suo insediamento, la Commissione a guida Ursula von der Leyen ha presentato la Comunicazione sul Green Deal e, un mese dopo, le prime proposte, in primis quella per un piano di investimenti che intende mobilitare mille miliardi. Per aiutare gli altamente dipendenti da fonti fossili (e quindi più vulnerabili dinanzi alla transizione energetica), la Commissione ha proposto un “meccanismo per la transizione giusta”, che ha già fatto discutere: dei 7,5 miliardi a disposizione, Polonia e Germania potrebbero prendersi una bella fetta della torta (rispettivamente 2 miliardi e 887 milioni), cosa che non piace, tra gli altri, alla Francia. All’Italia andrebbero 364 milioni, ma la distribuzione del denaro dipenderà per tutti dai progetti di riconversione ambientale ed economica che verranno proposti. Il negoziato sulla relativa proposta normativa non si prospetta per questo facile.

Nonostante gli incoraggianti numeri, la Commissione stessa riconosce un gap di investimenti di 260 miliardi all’anno entro il 2030 rispetto agli attuali obiettivi Ue (tra cui una riduzione del 40% di emissioni entro il 2030 rispetto al 1990). Nel Green Deal questi obiettivi saranno verosimilmente rivisti al rialzo – per le emissioni si discute del 50/55% al 2030 – e il divario sempre così destinato ad aumentare.

Europa e Italia nel 2020
Le prevedibili liti europee non devono distrarci: decarbonizzare il continente è condizione necessaria ed è bene che la Commissione lo abbia capito. Fare i compiti a casa nostra – ammesso che ci si riesca – non è però sufficiente: in quanto bene pubblico globale il clima non può essere tutelato senza azione globale. È positivo quindi che l’esecutivo si sia fatto promotore di una vera e propria climate diplomacy, un passo importante a integrazione della già più consolidata energy diplomacy.

Tradurre la priorità di neutralità climatica nelle relazioni esterne non sarà facile, ma abbiamo l’opportunità di contare molto in questo anno appena iniziato. Opere di convincimento verso gli Statin Uniti  saranno probabilmente poco efficaci dato il monopolio delle elezioni presidenziali nel dibattito. A Davos le divergenze tra le due sponde dell’Atlantico appaiono poi sempre più marcate, anche se l’Ue potrà puntare al livello sub-federale americano per rafforzare l’impegno sul clima.

Nel breve periodo si punta dunque al Summit tra Ue e Cina e alla cooperazione con l’Africa. Il tandem italo-inglese della pre-Cop e della Cop26 nel 2020 ha poi le carte in regola per fare la differenza – specialmente verso Cina e India che procedono a passi incerti – e potrà rafforzarsi nel 2021, quando i due Paesi presidieranno rispettivamente G20 e G7.