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Non solo in Occidente: l’Etiopia tra statue decapitate e rivendicazioni etniche

17 Lug 2020 - Roberta Maria Aricò  - Roberta Maria Aricò 

Dalla morte di George Floyd e l’inizio delle marce del movimento Black Lives Matter, il fenomeno della rimozione di statue erette in memoria di personaggi storici oggi ritenuti controversi ha riempito i tabloid statunitensi ed europei. Le recenti proteste che hanno coinvolto l’Etiopia hanno dimostrato, però, come questo genere di reazione simbolica non sia solo una prerogativa del dissenso registrato ultimamente in Occidente.

In Nord America e in Europa la deposizione di questi monumenti si colloca all’interno di un moto di protesta contro uno status quo iniquo, che perpetra discriminazioni storiche e disequilibri di potere a favore di un gruppo privilegiato grazie al colore della propria pelle nonché genere, orientamento sessuale, censo e provenienza geografica. L’attacco ai monumenti non è stato adottato, però, solo come strumento di contrasto alle discriminazioni razziali presenti in Occidente o causate dall’imperialismo occidentale in altre parti del mondo. Questo tipo di reazione simbolica ha trovato terreno fertile anche in contesti lontani dal Vecchio Continente e dagli Usa, dove l’emarginazione permane ma le vittime e le cause del disequilibrio sociale sono diverse e principalmente legate a contrasti etnici locali.

È il caso dell’Etiopia, dove nelle scorse settimane ad Harar è stata decapitata la statua di Ras Makonnen, padre dell’imperatore di Etiopia Hailé Selassié I, di stirpe amhara. Il gesto è stato compiuto dai manifestanti di etnia oromo, in fermento dopo l’uccisione del cantante e attivista Hachalu Hundessa assassinato con un colpo di pistola lo scorso 29 giugno. La distruzione del monumento si colloca all’interno di un moto di proteste, iniziate il 30 giugno e sedate dalle forze dell’ordine il 4 luglio, in cui la componente oromo rivendica i propri diritti a fronte di un passato di vessazione ed estromissione dai vertici statali.

Chi sono gli oromo
Gli scontri etnici costituiscono da sempre un elemento caratteristico della storia etiope: nonostante il paese ospiti circa 80 etnie diverse, le vicende che hanno interessato l’Etiopia contemporanea vedono protagonisti gli oromo, gli amhara e i tigrini. Pur costituendo oltre il 33% della popolazione etiope, la comunità oromo presenta una storia di marginalizzazione perpetrata prima dalla dinastia imperiale e dal comitato militare Derg, entrambi di etnia amhara, e poi dei governi democratici a preminenza tigrina. Le persecuzioni, iniziate nel 1967 sotto Selassié, sono continuate anche con l’insediamento di Menghistu. Tra le molteplici recriminazioni mosse all’allora presidente-dittatore figura anche l’accusa di aver fatto terra bruciata attorno al Fronte di Liberazione Oromo, osteggiando la fazione indipendentista con atti di violenza.

Nel 1991 il Derg viene deposto, ma l’ascesa al potere del Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope, a maggioranza tigrina, non migliora le sorti degli oromo. Nonostante la nuova costituzione federale del Paese, i rapporti tra le diverse etnie etiopi rimangono tesi e i conflitti tra i gruppi vengono esacerbati da un’aperta competizione politica contornata da atti di guerriglia e attentati, col tempo sempre più sporadici.

Le proteste oggi
Le proteste scoppiate in seguito alla morte di Hundessa sono figlie delle manifestazioni promosse dagli oromo e sostenute dalla fazione amhara tra il 2015 e il 2018. Motivo scatenante di queste rivolte è stato il piano proposto dall’allora governo etiope per ridefinire i confini della capitale Addis Abeba e, di conseguenza, ridimensionare le regioni dell’Oromia e dell’Amhara. Dopo tre anni di proteste i manifestanti hanno ottenuto le dimissioni del primo ministro Hailemariam Desalegn, ponendo fine all’oligarchia tigrina e richiedendo una maggiore rappresentanza istituzionale.

Oggi l’Etiopia ha il primo governo a guida oromo della storia del Paese. Primo ministro è il Premio Nobel per la pace Abiy Ahmed, considerato in Occidente una figura politica all’avanguardia in virtù della tregua siglata con l’Eritrea e all’impegno a sostegno dell’economia africana durante la pandemia. L’opinione su Ahmed è meno positiva in patria, dove le critiche vengono mosse dalla stessa comunità oromo. Buona parte del gruppo etnico ritiene che Ahmed professi l’unità nazionale etiope senza promuovere un effettivo miglioramento della condizione degli oromo ed eliminare le ragioni alla base dei conflitti interetnici. Tra le voci critiche spiccava anche quella di Hundessa, che una settimana prima dell’assassinio denunciava in televisione le ancora frequenti incarcerazioni di massa ai danni di membri dell’opposizione oromo.

Come nel caso dei moti avvenuti sotto Hailemariam Desalegn, anche nel corso delle recenti manifestazioni etiopi l’espressione del dissenso ha avuto un costo. La polizia etiope attesta che, in cinque giorni di proteste, ci siano stati oltre 3500 arresti e 239 morti. In risposta alle dimostrazioni, Ahmed – che il 30 giugno aveva espresso il proprio cordoglio per la morte di Hundessa su Twitter – ha bloccato l’accesso ad Internet in tutto il Paese, attuando una misura già prevista per preservare la sicurezza nazionale in caso di disordini. In una dichiarazione pubblica, il primo ministro ha definito gli episodi di violenza registrati negli scorsi giorni in Etiopia un tentativo sventato di provocare una guerra civile, ritenendo responsabile non solo chi ha commesso tali crimini ma anche chi ne “ha mosso le fila”.

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