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È già cominciato il dopo-Boris?

5 Ott 2020 - Alessandra Rizzo - Alessandra Rizzo

La gaffe di Boris Johnson, incapace di spiegare le restrizioni imposte dal suo stesso governo per rallentare la nuova ondata di coronavirus, è stata vista da molti come la chiara illustrazione di un primo ministro che ha perso il controllo della situazione in un momento drammatico nella vita del Paese. E abbondano i segnali che Johnson stia gradualmente perdendo anche la fiducia di un partito del quale, fino allo scoppio della pandemia, era la star indiscussa. “I Tory pensano già alla vita dopo Boris Johnson”, ha scritto recentemente il Times.

Hanno ragione loro? O tornerà, per usare le parole della Bbc, il “vecchio Boris” capace di entusiasmare il partito e gli elettori?

Tutti gli attacchi a BoJo
Il premier britannico è sotto attacco su più fronti, dalla gestione della crisi sanitaria alla Brexit, e non solo nel merito delle decisioni prese ma anche per lo stile della sua leadership, secondo molti troppo autocratico e poco rispettoso di un Parlamento fieramente culla della democrazia moderna occidentale.

Johnson ha affrontato una ribellione da parte di circa ottanta deputati conservatori che lamentavano la mancanza di controllo sulle continue misure restrittive della libertà dei cittadini. La protesta è stata domata con la promessa di dare a Westminster maggiore potere sulle decisioni future, ma il malessere nel partito rimane. Soprattutto perché, tra i corridoi di Westminster e all’interno del potente gruppo parlamentare del partito, il Comitato 1922, serpeggia la sensazione che manchi al premier una strategia coerente e una visione per il dopo-pandemia.

Altri ritengono che le restrizioni siano eccessive o inefficaci e peggiorino inutilmente una già devastante crisi economica. Tra questi ultimi c’è l’astro nascente del partito Rishi Sunak, il cancelliere dello scacchiere, per il quale è arrivato il momento di “vivere senza paura”. Sunak ha guadagnato il plauso di tutti per aver ideato programmi innovativi a sostegno del lavoro e dell’industria della ristorazione, ma anche per aver toccato le corde giuste nel rivolgersi ai cittadini – empatia e una sana dose di realismo, per esempio nell’ammettere che il governo non potrà salvare tutti i posti di lavoro. Per molti, è già il rivale di Johnson alla guida del partito.

Sulla Brexit, la decisione di Johnson di presentare una legge che aggira aspetti cruciali dell’accordo di divorzio con Bruxelles, in violazione del diritto internazionale, ha provocato costernazione tra i Tory. Come l’esplicita, surreale ammissione del governo su come il testo violi sì le norme internazionali ma “in modo limitato e specifico”.

E poi a Johnson viene rimproverato di essere troppo dipendente dal suo stratega Dominic Cummings, talmente indispensabile da essere stato graziato dopo aver violato il lockdown all’apice della pandemia, tra l’indignazione generale. Con Downing Street paragonata alla corte di Enrico VIII, e Cummings, già da molti visto come una sorta di Rasputin, novello Thomas Cromwell. La prevista riorganizzazione del civil service, l’apparato burocratico del Paese da sempre garanzia di competenza e continuità democratica (una riforma che è un pallino di Cummings) aumenta l’apprensione.

Paradossalmente per il premier, alcune delle qualità che lo hanno reso così popolare nel Paese, l’ottimismo, la battuta sagace, perfino una certa disinvoltura per regole e regolamenti, vista di questi tempi come dimostrazione di un politico “autentico”, mal si sposano con la gestione della crisi più grande dal dopoguerra. La natura ultra-libertaria e la stessa formazione politica lo rendono istintivamente restio a imporre ai cittadini vincoli e divieti, con il risultato di misure parziali, confuse, e spesso, come nella fase iniziale, colpevolmente tardive.

I maligni sostengono che Johnson non sia più lo stesso da quando a marzo ha contratto il Covid-19, passando tre notti in terapia intensiva in condizioni critiche. Lui sostiene di essere in forma fisica migliore rispetto a sei mesi fa. Ogni altra illazione, dice, è solo un esempio di “sinistra disinformazione“.

Pensare al futuro
E dunque, è già davvero cominciato il dopo-Boris? I conservatori sono un partito pragmatico. Non dimenticano che solo il dicembre scorso Johnson li ha portati ad un trionfo elettorale mai visto dai tempi della Thatcher. Ma da allora molto, tutto è cambiato.

Johnson doveva essere il leader ottimista in grado di traghettare il Paese definitivamente fuori dall’Ue con una visione – certo irrealistica – di Global Britain. Si trova, invece, a gestire una crisi drammatica, con un’economia in recessione e una società disorientata e confusa. E lo deve fare, lui uomo non incline a soffermarsi sui dettagli, né noto per la capacità di concentrazione, con un esecutivo scelto anche, quando non soprattutto, sulla base della fedeltà alla causa Brexit. Infine, è cambiato, cosa non insignificante, anche il capo dell’opposizione: non più l’ineleggibile Corbyn, ma un Keir Starmer che si è dimostrato finora bravissimo nel proiettare l’immagine di premier potenziale.

Le elezioni sono lontane, e Johnson può stare per ora tranquillo: sostituire un politico del suo peso non è cosa facile. Ma i Tory, oltre che pragmatici, sanno anche essere spietati. E c’è già chi ricorda l’esempio di Anthony Eden, il premier conservatore eletto nel 1955 con una maggioranza parlamentare di sessanta seggi, e costretto alle dimissioni meno di due anni dopo, vittima della crisi di Suez. Johnson, atteso al discorso programmatico alla conferenza virtuale del partito, lo sa bene. Deve riprendere in mano la gestione della pandemia, e le redini del partito, se vuole evitare la stessa sorte.