IAI
La raccolta di saggi del politologo

“Prima l’Europa. È l’Italia che lo chiede”. Parla Sergio Fabbrini

8 Ott 2020 - Elena Paparelli - Elena Paparelli

Una raccolta di editoriali pubblicati sul Sole 24 Ore in più di un anno – fra marzo 2019 e agosto 2020 – a firma di Sergio Fabbrini, professore ordinario di Scienza Politica e Relazioni Internazionali e Direttore del Dipartimento di Scienze Politiche presso la LUISS Guido Carli, aiuta a fare il punto su cosa è e cosa potrebbe ancora essere l’Europa.

Il titolo del suo libro è “Prima l’Europa – È l’Italia che lo chiede”. Ci spiega perché?
“L’Unione europea, che è la forma organizzata assunta dall’Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale, è il risultato di diversi Trattati ma anche di processi politici imprevedibili. È con questa complessità che occorre fare i conti, quando si parla di Europa. Intanto, occorre conoscerla. Così, quello che cerco di fare nel libro è spiegare come funziona l’Europa, liberandola dalla prigionia delle partigianerie e dei pregiudizi che sono spesso, entrambi, l’esito di ignoranza. La pandemia ha sottoposto a dura prova i Paesi europei, ma ha fatto anche capire che nessuno di essi può singolarmente affrontare una sfida esistenziale di questa magnitudine. L’Unione europea è l’unica organizzazione che può affrontare quelle sfide, come è avvenuto con le politiche decise dalla Banca centrale europea, dalla Commissione europea, dal Consiglio europeo. Tuttavia, in questo processo, si sono viste anche difficoltà, divisioni, incertezze. Ecco perché è necessario pensare a nuove istituzioni e procedure per garantire un futuro all’Unione europea. La Conferenza sul futuro dell’Europa, quando partirà, sarà un’occasione molto utile, quasi necessaria, per fare una riflessione non retorica sull’Ue. I valori europei hanno bisogno di gambe su cui camminare. L’Unione europea deve dimostrare di essere efficace nelle decisioni e di essere legittimata nelle decisioni che prende. Chiarito questo, credo che il compito dell’Italia sia quello di difendere l’Unione europea ma anche di indicare i suoi punti di debolezza, avanzando proposte di riforma per migliorarla.

Nel libro insiste più volte sul concetto di interdipendenza.
“Dobbiamo tenere presente l’ambiguità strutturale dell’Unione europea, che nasce da un accordo fra Stati ma ha bisogno dei loro cittadini per legittimarsi. Quest’unione di stati e cittadini deve fare i conti con le sfide attuali sulla base di una doppia e contraddittoria legittimazione, quella dei governi nazionali e quella degli elettori europei. L’Unione europea non è uno stato nazionale “in grande”, ma è un’entità politica radicalmente diversa. Aggrega Stati che hanno una diversa popolazione e diverse identità nazionali, sulla base di un principio di eguaglianza che non è facile da garantire. Tuttavia, fuori dall’Unione europea, quegli Stati sarebbero ancora più diseguali. Questi stati sono divenuti sempre più interdipendenti perché i grandi problemi che debbono affrontare sono sempre di meno nazionali. L’inquinamento non si ferma alle frontiere, né i virus, né le crisi finanziarie, né i flussi migratori… L’interdipendenza è un vincolo ma anche un’opportunità per affrontare problemi che da soli non saremmo in grado di risolvere. Tuttavia, l’interdipendenza può avere forme istituzionali diverse, può essere diversamente organizzata. Il mio lavoro di ricerca come studioso è finalizzato ad individuare una forma equilibrata dell’interdipendenza, così da promuovere una democrazia sovranazionale compatibile con la preservazione delle democrazie nazionali. Il metodo federale è per me uno strumento indispensabile per cercare di bilanciare “la sovranità dell’Unione con quella degli stati membri”. Ciò che è emerso dalle crisi multiple dello scorso decennio è invece un eccessivo potere degli stati nazionali rispetto ai compiti da affidare alle istituzioni sovranazionali.

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L’epoca dell’indipendenza nazionale è dunque finita?
Sì. Occorre uscire dalla logica nazionalista/indipendentista. Lo Stato nazionale ha molti compiti da svolgere, ma vi sono anche altri compiti che non può più svolgere da solo. Se si abbandona l’ideologia statalista/sovranista, allora si può riflettere e discutere su cosa deve fare lo Stato e cosa deve fare l’Unione europea. È su questo piano che ci possono essere divisioni tra i partiti, non già sull’interdipendenza “Sì o No”. L’interdipendenza europea è un fatto, non un’opinione. Dividiamoci, piuttosto, su come stare dentro al processo di integrazione europeo e su come contribuire alle decisioni che influenzano l’intero continente. E, quindi, domandiamoci se il nostro sistema istituzionale e politico è attrezzato per influenzare il processo di integrazione. Quest’ultimo richiede efficienza, difficilmente è compatibile con un Parlamento ancora basato su un bicameralismo perfetto, anche se è costituito di meno parlamentari, o con un sistema partitico frammentato.

Next Generation EU non rende più forte l’idea di Europa?
Il piano Next Generation EU è stata una dimostrazione che l’Europa è in grado di rispondere a sfide esistenziali come la pandemia in modo efficace. Nessun Paese da solo avrebbe potuto affrontare una sfida di questo tipo senza il sostegno dell’Europa. La forza dell’Europa è anche legata alla forza dei suoi stati membri. In questa vicenda si è visto come i due Paesi che continuano a dimostrarsi i paesi-guida come la Francia e la Germania, hanno ragioni per essere tali. La Germania già da giugno ha definito con precisione le priorità della sua risposta alla pandemia e dunque gli indirizzi per implementarle; la Francia, per ragioni legate anche a contingenze politiche, ha presentato il suo piano recentemente, ma anche in questo caso si tratta di un progetto molto chiaro, in termini di priorità e obiettivi. Quello che colpisce e che continua a colpire rispetto a questi due paesi è la difficoltà che ha l’Italia a sviluppare un “pensiero governativo” di medio, non dico lungo, periodo. Ciò è dovuto a ragioni politiche, non intellettuali, naturalmente. Siccome il governo è debole, continuamente sull’orlo di una crisi di nervi, per via dell’una o dell’altra elezione locale o regionale, allora le priorità non possono essere definite con eccessiva chiarezza (c’è sempre qualcuno che potrebbe questionarle). Di qui, l’approccio bottom-up, consensuale ma anche particolaristico, o almeno questo è il rischio.

Cosa deve fare oggi l’Europa per sostenere i governi nazionali?
Deve aiutare i governi nazionali a perseguire politiche che siano reciprocamente compatibili. Dobbiamo arrivare ad avere un continente che sia neutrale sul piano dell’ambiente, molto sviluppato sul piano digitale, e molto inclusivo sul piano sociale. Un lavoro che devono fare insieme governi nazionali e autorità europee. Nel medio periodo, più in generale, l’Europa dovrebbe acquisire una competenza su quelle politiche che i governi da soli non possono perseguire: la sicurezza, la politica estera, la politica della difesa, la politica militare, la politica dell’intelligence, la politica commerciale. Ma anche la politica migratoria, per quanto riguarda la difesa dei confini, la regolamentazione dell’asilo politico, l’integrazione degli immigrati.

Con i finanziamenti di Next Generation EU si apre una nuova fase, anche per l’Italia.
Un paese importante come l’Italia richiederebbe la condivisione, da parte delle maggiori forze politiche, di ciò che è il suo interesse nazionale. Le maggioranze di governo possono cambiare, ma non gli indirizzi strategici del paese. Quando c’è stato il Marshall Plan c’era una continuità garantita da una forza politica come la Democrazia Cristiana che ha consentito di fare da baricentro della maggioranza: i fondi del Marshall Plan nel corso degli anni ’50 sono stati utilizzati dentro e attraverso quel baricentro. Il dramma dell’Italia odierna è che non vi è un’idea condivisa, da parte dei maggiori partiti e leader, degli interessi italiani. Eppure, in una democrazia solida, il compito dell’opposizione dovrebbe essere quello di avanzare progetti alternativi a quello del governo, per utilizzare meglio le risorse di “Next Generation EU”, oppure di criticare il governo quando manifesta incertezze sulla sua politica atlantica, avvicinandosi troppo alla Cina. Comunque, auguriamoci che per gestire i 209 miliardi di “Next Generation EU” destinati al nostro Paese si costruisca una network tecnico-politico che gestisca i fondi secondo priorità nazionali indipendenti dai cambiamenti governativi. Gli investimenti hanno durata più lunga della vita di un governo, e devono dare una prospettiva al paese. È questo che gli italiani si aspettano.