Brexit Deal: storia di un lungo negoziato
Il governo inglese ha visto nella posizione dell’Ue il rischio di rimanere nell’orbita del sistema normativo europeo e di vedersi costretto a sottostare a un meccanismo di risoluzione delle controversie per giudicare eventuali distorsioni al commercio.
L’opposizione di Londra ad accettare un level playing field è sembrata in effetti nascondere la volontà di ritagliarsi col tempo un vantaggio competitivo. La dichiarazione del Premier Johnson che il Regno Unito vuole essere “un magnete per gli investimenti dall’estero” non coglie la realtà, che ha visto dopo il referendum e prima del Covid un crollo degli investimenti e della produttività. Ma rivela le ambizioni di attrarre con condizioni di favore imprese che potrebbero poi praticare una concorrenza sleale nel mercato europeo.
Un mercato da salvare
Salvaguardare l’integrità del mercato unico è per l’Ue l’obiettivo fondamentale, che ha reso necessario trovare l’accordo su un meccanismo per continuare a avere standard comuni. Questo ha comportato definire le modalità di una procedura di arbitrato da attivare nel caso vi siano disaccordi, procedura che prevede per entrambe le parti la possibilità di adottare contromisure, che potranno tradursi in sanzioni, incluse tariffe.
Con uno dei tanti paradossi della storia, gli europei hanno difeso il mercato unico di cui proprio Margaret Thatcher è stata convinta sostenitrice alla fine degli anni Ottanta, spingendo per l’attuazione del progetto della grande area senza frontiere interne entro il 1992 lanciato dalla Commissione europea guidata da Jacques Delors.
Due obiettivi opposti?
Per la definitiva separazione tra Regno unito e Unione europea era necessario conciliare due obiettivi apparentemente inconciliabili: per l’Ue una convergenza regolamentare post-Brexit, per il Regno Unito la piena sovranità in materia di regole e standard.
L’uscita dalla Ue è stata trasformata da Londra in una questione ideologica, di affermazione della sovranità nazionale. Più che coltivare una visione nostalgica del passato, Londra, tutti gli europei in realtà, dovrebbero interrogarsi su quale sia oggi il significato della sovranità nazionale, che va aggiornata tendendo conto della trama ampia e complessa dei legami economici, sociali e politici frutto di un processo storico di globalizzazione che la pandemia rallenterà, ma non arresterà.
Schivato lo shock di un mancato accordo nel mezzo di una pandemia e tenendo presente la realtà dell’economia di un mondo sempre più interconnesso, il successo delle future relazioni tra Regno unito e Ue si misurerà, come ha richiamato la ministra degli esteri spagnola, sulla capacità di riuscire a gestire l’interdipendenza.
Perseguire l’obiettivo di reciproci vantaggi è l’unica via di uscita win-win da più di quarant’anni di storia comune. Alla fine, la strada del compromesso è stata imboccata, soprattutto per evitare uno scenario di tariffe conformi alle regole del Wto, un salto indietro fonte di problemi per le imprese europee e britanniche. Dall’1 gennaio comunque vi saranno formalità burocratiche e controlli doganali al commercio di beni e servizi. Per quest’ultimi Londrà perderà l’accesso automatico al mercato unico.
La visione britannica
Il Regno Unito ha portato nella costruzione europea una visione basata sull’apertura del mercato e sul liberalismo economico, contrastando l’impostazione protezionista di stampo francese dei primi anni dell’integrazione e apportando un contributo positivo allo sviluppo del progetto europeo.
Ha però anche rallentato o bloccato dossier importanti per la costruzione della dimensione politica dell’Europa, nell’ambito monetario e della difesa soprattutto, dove ha sempre fatto prevalere una linea filo-atlantica. Nei settori che sono al cuore della sovranità degli Stati Londra ha ostacolato passi avanti o richiesto deroghe e esenzioni. Un approccio minimalista che ha fatto conquistare al Regno unito la fama di partner scomodo.
Questo approccio è emerso anche nel negoziato per la Brexit, con la priorità data soprattutto all’aspetto commerciale, mentre Londra ha escluso dalla discussione sul futuro delle relazioni bilaterali il capitolo della politica estera, di sicurezza e difesa.
Virus e no deal
Nel momento cruciale del negoziato per l’accordo commerciale l’emergenza sanitaria è balzata in primo piano, con il ministro della sanità britannico che ha definito il virus “fuori controllo”. Mentre il governo, ostaggio dell’ala più dura dei brexiteer del partito conservatore, continuava a non escludere un’uscita senza accordo. Questo nonostante sia la Banca d’Inghilterra che studi della London School of Economics, avessero da tempo sottolineato i danni a lungo termine per l’economia britannica di un no-deal, valutati fino a tre volte maggiori di quelli provocati dal Covid.
L’allarme lanciato dal governo inglese sulla nuova variante del virus suscita qualche interrogativo. Se la variante era nota da ottobre, in modo più responsabile l’allarme doveva essere lanciato prima. A metà dicembre sembra quasi indicare la volontà di spostare l’attenzione sulla pandemia, forse sperando di offuscare le pesanti conseguenze economiche della Brexit. Così come potrebbe essere stata una mossa politica la chiusura della frontiera a Calais per 48 ore da parte della Francia.
Per valutare l’accordo raggiunto in extremis sarà necessario vederne nel dettaglio i contenuti. Ognuno cercherà di minimizzare le concessioni e vorrà proclamare vittoria. Soprattutto Boris Johnson, che per ragioni di consenso interno deve dimostrare che Brexit è stata una scelta vantaggiosa.
In realtà, schivato lo shock di un mancato accordo nel mezzo di una pandemia, l’intesa rappresenta una vittoria del buon senso. Keep calm and carry on è davvero il motto di questi tempi, per tutti.
Questa è la seconda parte di un articolo sul Brexit Deal pubblicato su AffarInternazionali lunedì 28 dicembre.