Gli Stati Uniti tra crisi dell’ordine liberale e il dilemma della democrazia
Qual è il rapporto tra la crisi dell’ordine liberale e l’arretramento della democrazia nel mondo? Sul tema è da poco uscito per Carocci il libro di Gabriele Natalizia “Renderli simili o inoffensivi. L’ordine liberale, gli Stati Uniti e il dilemma della democrazia”. Per toccare alcuni elementi di un testo denso di spunti, abbiamo rivolto alcune domande all’autore, docente di Relazioni Internazionali alla Sapienza e coordinatore del Centro Studi di Geopolitica.info.
Quando si è cominciato a parlare di crisi della democrazia su scala regionale o globale?
Freedom House ha cominciato a denunciare il fenomeno sin dal 2006 e, in Freedom in the World 2020, ha parlato dell’assenza di una leadership saldamente alla testa dei Paesi democratici. Dal canto suo V-Dem, nel suo Democracy Report 2020, ha presentato il fenomeno dell’autocratizzazione come il risultato delle politiche messe in atto da alcune grandi e medie potenze, nei cui confronti le principali forme di contrasto provengono dal basso e sono prive del sostegno fattivo e costante delle potenze democratiche. Nell’ambito degli studi politologici questi fenomeni sono stati interpretati come “interni” e, pertanto, studiati principalmente dagli esperti di politica comparata. Anche quanti se ne sono occupati dalla prospettiva delle Relazioni internazionali solo raramente hanno guardato al rapporto tra stabilità/instabilità dell’ordine internazionale e allargamento democratico.
Nel libro parla di “torsione strategica” nella politica estera americana degli ultimi dieci anni…
L’arretramento della democrazia può essere interpretato come un indicatore – tra gli altri – della crisi dell’ordine liberale. Non si dimentichi, però, che quest’ultimo, anzitutto, è un ordine internazionale a guida americana. Se fino ai primi anni Duemila è stato generalmente considerato stabile, successivamente sia il governo degli Stati Uniti sia molti osservatori ne hanno denunciato l’intervenuta instabilità. Al cospetto della variazione del contesto politico-strategico circostante, Washington si è vista costretta a mutare la postura assunta negli anni delle amministrazioni Bush sr., Clinton e Bush jr. Da un approccio ispirato all’idea dell’America quale “nazione indispensabile”, in sintesi, gli Stati Uniti sono passati al cosiddetto retrenchment. Questo ha preso prevalentemente le forme della richiesta di condivisione delle responsabilità rivolta agli alleati e del taglio degli impegni non essenziali per la preservazione del primato americano.
Cosa si deve intendere esattamente per ordine internazionale stabile e instabile?
Per stabilità solitamente si intende la capacità di un ordine di mantenere verosimilmente i suoi tratti essenziali nel medio-lungo termine. Ordini imperituri non esistono, come ogni cosa che riguarda la realtà, ma qui entriamo nel campo della filosofia.
L’ordine liberale è stato sempre funzionale al primato internazionale degli Stati Uniti?
Washington ha considerato le qualità liberali dell’ordine di cui è alla guida – intergovernamentalismo, interdipendenza economica e allargamento democratico – come degli strumenti di stabilizzazione capaci di produrre risultati nel medio-lungo termine.
Quali sono le teorie che riguardano il rapporto fra ordine egemonico e ordini interni?
Molto schematicamente, gli studi sul tema sono sostanzialmente fermi a una visione classica dell’egemonia secondo cui la potenza garante di questo tipo di ordine pretenderebbe dagli Stati secondari l’allineamento sulle questioni internazionali “strategiche”. Lascerebbe loro, invece, completa autonomia per quanto riguarda la sfera politica domestica. Al contrario sarebbero le configurazioni imperiali – formali o informali – a intaccare la piena sovranità degli Stati. Nel volume, provo a dimostrare che quando l’ordine internazionale è stabile la potenza egemonica tende ad aumentare i suoi impegni, tra cui figura anche la promozione del suo modello politico (renderli simili). Al contrario, quando emergono fattori di instabilità tende a concentrare le sue energie per la preservazione dell’elemento centrale dell’ordine – il suo primato – e cerca di ottenere dagli altri Stati l’allineamento – o la neutralità – sulle questioni strategiche (renderli inoffensivi).
Oggi ha ancora senso di esistere un’organizzazione internazionale come l’Onu?
L’Onu funziona bene quando i rapporti di forza di cui è espressione sono chiari e non contestati. Nel momento in cui tornano a esserlo, come avvenne durante buona parte della Guerra fredda, è per sua natura soggetta a paralisi.
Con quali amministrazioni l’idealismo democratico degli Stati Uniti ha fatto i conti con le necessità della realpolitik?
Naturalmente non c’è amministrazione che non si sia scontrata con la realtà, tanto è che nel libro parlo di tendenze prevalenti e non di una prassi politica attuata sistematicamente. Franklin Delano Roosevelt e, soprattutto, Harry Truman progettarono “in grande” perché ragionarono in termini di un potere americano non sfidato. Ma già Truman dopo il 1949-1950 assunse una posizione più cauta sul tema della democrazia. I presidenti che gli succedettero – anche quelli che posero più enfasi sul tema della democrazia nella costruzione della loro immagine – non poterono non scontrarsi con una sfida oggettiva al primato americano che impose loro scelte “realiste”. Con Jimmy Carter ci fu il primo tentativo di rimettere al centro dell’approccio strategico americano la democrazia e i diritti umani, che però divenne realtà solo negli anni dell’amministrazione Reagan di fronte alla sostanziale resa dell’Unione Sovietica.
In che modo le amministrazioni Obama e Trump si sono mosse in maniera simile o si sono differenziate nella difesa del primato americano?
Entrambe hanno optato per un approccio strategico ispirato al retrenchment, nel cui ambito hanno rivendicato il burden sharing con gli alleati – soprattutto in sede Nato – e realizzato la politica del Pivot to Asia – preferendo il leading from behind nei quadranti non vitali dalla prospettiva di Washington. Tuttavia, mentre Obama ha provato una politica di concessioni nei confronti dei rivali – Cina, Russia, Iran e Cuba – nella speranza di trasformarli in partner strategici, Trump ha interagito con essi realizzando una politica di massima pressione volta a massimizzare il differenziale di potere che ancora vede gli Stati Uniti in vantaggio. Fondamentalmente, nessuno dei due ha invertito la rotta, tanto è che Joe Biden nel suo primo documento strategico parla di un ordine internazionale a guida americana sotto pressione a causa della presenza di competitor strategici.
Come vede i primi passi dell’amministrazione Biden in politica estera?
Biden ha riportato la democrazia al centro dei suoi discorsi. Ma lo ha fatto in modo diverso dai suoi predecessori. Essa non è tanto un bene da promuovere laddove è assente. È, in primis, un bene da difendere laddove già esiste – anche negli Stati Uniti – e costituisce una linea di demarcazione tra i veri alleati dell’America e i suoi rivali.
Foto di copertina EPA/CJ GUNTHER