Zemmour: la sfida anti-sistema del sovranista venuto dalla tv
PARIGI La politica francese sembra andare dritto verso un iceberg di nome Eric Zemmour, col rischio di affondare in un dibattito nervoso e fumoso a proposito di questo personaggio che alcuni idolatrano e altri demonizzano.
Per adesso, Zemmour (nato nel 1958 a Montreuil, nel dipartimento della Seine-Saint-Denis) non è né una divinità né un demonio. È in primo luogo un fenomeno mediatico impostosi all’attenzione dell’opinione pubblica grazie, tra l’altro, a una trasmissione quotidiana di fine pomeriggio sul canale tv privato CNews (gruppo Canal Plus, controllato dall’uomo d’affari Vincent Bolloré). La chiave del successo televisivo di Zemmour è legata all’angoscia di molti francesi per il “declino”.
Un complesso che da decenni esplode periodicamente in forme diverse, spesso con gran clamore mediatico. C’è stato ad esempio il libro La France qui tombe, scritto da Nicolas Baverez e uscito nel 2003. Come Baverez, Zemmour pubblica tradizionalmente i propri commenti su Le Figaro, ma tra le ricette anti-declino di questi due analisti c’è una grande differenza: Baverez vuol far funzionare un’economia liberale in un contesto d’integrazione europea, mentre Zemmour scommette sul ruolo dello Stato francese (che per lui non è uno Stato come un altro perché per lui la Francia ha un’anima e un passato assolutamente speciali) in un quadro euroscettico e sovranista.
Essendo un eccellente comunicatore, Zemmour utilizza ogni strumento per presentarsi come un potenziale “salvatore della Patria in pericolo”. I suoi punti di forza sono la tv e il suo ultimo libro: La France n’a pas dit son dernier mot, uscito il 15 settembre e immediatamente divenuto un best-seller.
I punti a suo favore
Il successo di Zemmour nell’opinione pubblica è stato incentivato da quella che i suoi amici considerano un’ingiustizia. Il prossimo aprile ci sono le elezioni presidenziali, ma vari candidati (tra cui lo stesso capo di Stato uscente Emmanuel Macron) non hanno ancora annunciato formalmente la loro partecipazione a quella sfida.
L’Autorità di vigilanza sul settore audiovisivo ha stabilito il mese scorso che – essendo Zemmour un candidato di fatto – le sue presenze devono essere computate in una sostanziale ottica di “par condicio”. Non può dunque avvantaggiarsi della trasmissione costruita sulla sua persona. Zemmour si è presentato come un perseguitato, così come aveva fatto nel 2011 e nel 2018 quando fu condannato per “incitamenti razzisti”. Certo l’effetto nell’opinione pubblica è stato a lui favorevole, visto che i sondaggi presidenziali lo danno in questo ottobre (ossia sei mesi prima delle elezioni) intorno al 15% e alcuni ipotizzano addirittura una sua presenza al secondo turno della sfida per l’Eliseo.
I punti a suo sfavore
Ma qui cominciano i problemi. Zemmour, che sembra sul punto d’ufficializzare la propria candidatura, caccia sulle stesse terre di Marine Le Pen. Questo spazio politico di estrema destra (euroscettico, sovranista, anti-immigrazione, amico di Orbán e ammiratore di Trump) può mandare un suo esponente al secondo turno presidenziale. Uno, non certo due.
Per alimentare la propria ascesa, Zemmour ha preso posizioni che la stessa Le Pen considererebbe probabilmente come imprudenti. Ma Zemmour parla oggi alla parte più scontenta dell’opinione pubblica. Il problema più sentito dai francesi – il potere d’acquisto di salari e pensioni – spinge alcuni (molti) alla nostalgia per un passato di forza nazionale e rischia di premiare gli euroscettici. Lo stesso vale per i problemi della pubblica sicurezza, drammatizzati dal terrorismo islamista degli ultimi anni. Costretta a misurarsi con la realtà del terrorismo, l’opinione pubblica ha molto discusso (talvolta a proposito e talvolta no) sulla realtà delle banlieues “difficili”, dove la tensione è aumentata negli ultimi due decenni. Nel costruire la propria immagine di “duro”, Zemmour ha scelto di “sparare” provocazioni estremistiche e sguaiate: frasi sul maresciallo Pétain accusate di essere esercizio revisionismo, scene discutibili come il fucile puntato sui giornalisti nel corso della visita a un’esposizione militare, escalation verbale contro gli immigrati, insulto (“imbecille!”) alla ministra macronista Marlène Schiappa. Nell’immediato tutto ciò può anche essere vantaggioso, ma l’immagine presidenziale di Zemmour non ne trae certo vantaggio.
Un personaggio controverso
Resta da capire (e non è poco) se il bagliore di Zemmour è quello di un astro nascente o quello di una stella cadente. Rispetto a Le Pen, che si mostra conciliante nei suoi confronti, Zemmour ha un vantaggio e uno svantaggio. Il vantaggio è che gli stessi elettori di quell’area politica credono poco a una vittoria al secondo turno della leader del Rassemblement National. L’handicap di Zemmour, però, è che dietro di sé non ha la forte macchina organizzativa di un partito come il “Rassemblement”.
Per risalire la corrente, l’arrembante personaggio tv (che non ha mai nascosto il suo ebraismo) sta tentando di conquistare l’appoggio dei cattolici tradizionalisti, che dispongono a loro volta di un’efficace macchina organizzativa (schieratasi nel 2017 dietro la candidatura presidenziale del neogollista François Fillon). Malgrado tutto, è molto difficile che Zemmour possa andare oltre il primo turno presidenziale. Molte cose cambieranno quando la campagna elettorale entrerà nella sua fase decisiva. Nel giro dei prossimi mesi Eric Zemmour potrebbe perdere qualche piuma.
Foto di copertina EPA/CHRISTOPHE PETIT TESSON