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"Brexit is done"

Così finisce una storia

2 Feb 2020 - Nicoletta Pirozzi - Nicoletta Pirozzi

Alla fine “l’alba della nuova era”, come l’ha definita il premier britannico Boris Johnson, è arrivata. Ci sono voluti tre anni e mezzo e tre primi ministri, oltre a innumerevoli ore di negoziati con l’Unione europea, ma nella notte tra il 31 gennaio e il 1 febbraio “Brexit is done”. Non è finita qui e anzi ci aspetta un percorso tortuoso fatto di nuovi negoziati, ma vale la pena fermarsi un attimo a pensare a quello che è successo questa settimana e a cosa ci riserverà il futuro.

Non è facile: con il dossier Brexit si rischia sempre di essere troppo cinici o troppo sentimentali – oscillando tra “in fondo è meglio così” e “oggi perdiamo tutti”. In questa settimana, abbiamo visto Nigel Farage sfilare al Parlamento europeo brandendo la bandierina britannica e dall’altro lato il presidente francese Emmanuel Macron e la cancelliera tedesca Angela Merkel ricordare che uscendo dall’Unione si rinuncia ai benefici e ai diritti garantiti ai membri. Ma abbiamo anche sentito gli europarlamentari intonare il canto tradizionale scozzese Auld Lang Syne subito dopo il voto sul Withdrawal Bill, e le maggiori cariche europee – Charles Michel, David Sassoli e Ursula von der Leyen – fare appello ai legami storici con il Regno Unito e parlare di una solida amicizia che resisterà nel tempo. In ogni caso, l’Union Jack è stata freddamente rimossa dai palazzi delle istituzioni di Bruxelles e la bandiera europea dai palazzi delle istituzioni di Londra (ma non da quelli scozzesi).

Finisce così una storia, non facile, durata mezzo secolo, mentre la promessa di un futuro comune viene lasciata nelle mani delle prossime generazioni. Il simbolismo è importante in questa occasione come lo è sempre stato nella costruzione europea. Per la mia generazione nata negli Anni Ottanta e cresciuta negli Anni Novanta, in una fase di grande fermento europeista, il Regno Unito ha rappresentato un punto di riferimento imprescindibile. Dalle vacanze studio estive per imparare la lingua che ci avrebbe aperto le porte di tutti i Paesi europei, all’Erasmus negli atenei inglesi dove si creava una comunità cosmopolita, alle vacanze improvvisate a Londra sui primi voli low cost che abbattevano i confini, la Gran Bretagna è sempre stata Europa e viceversa. E la moneta diversa o la guida a destra segnavano una diversità, mai un’estraneità.

Ma il simbolismo non sarà l’ingrediente principale degli sviluppi politici che avranno inizio da oggi. Non sarà sufficiente sventolare le bandiere per il governo britannico, che ha puntato sull’immagine di una Gran Bretagna liberata che torna al suo destino di grande potenza mondiale e che ora dovrà dimostrarlo con i fatti; né potranno limitarsi a farvi appello le istituzioni europee, che per mantenere coeso il campo comunitario dovranno soprattutto contare sulla convergenza concreta di interessi dei Paesi membri.

La parola torna dunque al processo politico e istituzionale che traghetterà Regno Unito e Ue nella definizione della loro nuova relazione dopo il periodo di transizione che terminerà alla fine dell’anno. In questi undici mesi, il governo britannico rispetterà tutte le regole dell’Ue ma i suoi rappresentanti non faranno più parte delle istituzioni europee e non parteciperanno più al processo decisionale. I rispettivi team negoziali – quello europeo coordinato da Michel Barnier, veterano nei palazzi di Bruxelles e riconfermato dalla nuova Commissione von der Leyen, e quello britannico guidato da David Davis, nominato dal governo di Boris Johnson e con un granitico pedigree euroscettico – avranno il compito di definire le nuove regole del gioco. Molti scommettono che non ce la faranno nei tempi previsti e che il massimo che possiamo aspettarci è un accordo minimo sulla circolazione delle merci. Ma quali sono i principali fattori di rischio e chi rischia di più tra Ue e Londra?

Gli aspetti economici sono ovviamente molto rilevanti. L’Ue è il principale partner commerciale della Gran Bretagna: le esportazioni verso l’Ue rappresentano il 45% delle esportazioni totali della Gran Bretagna e Londra importa il 53% delle sue importazioni totali dall’Ue. È chiaro quindi che arrivare ad un accordo soddisfacente è soprattutto interesse del governo britannico. Del resto, è stato calcolato che la preparazione della Brexit è già costata 400 milioni di sterline alla Gran Bretagna e Londra si è impegnata a pagare alla Ue circa 36 miliardi di euro per onorare gli accordi presi prima del divorzio. Per ora dunque, la Brexit non si è rivelata un buon affare. Del resto, perdendo un contributore netto così importante come la Gran Bretagna, l’Ue si troverà a dover colmare un buco di bilancio che ammonta a circa 10 miliardi l’anno. Tenuto conto delle ambizioni accresciute dell’attuale leadership europea per i prossimi anni, l’Ue dovrà trovare la quadra per un difficile accordo sul bilancio pluriennale 2021-2027 e fare una riflessione quanto mai urgente sulla necessità di introdurre nuove risorse proprie dell’Unione.

Nella fase immediatamente successiva al referendum britannico del giugno 2016, sembrava l’Ue ad essere più esposta al rischio di disgregazione. Erano in molti i commentatori che temevano un effetto domino in altri Paesi europei, da quelli dell’Europa centro-orientale all’Italia. E invece il fronte europeo ha tenuto bene e ormai quasi più nessuno – a parte alcuni irriducibili nazionalisti con tendenze populiste – parla di lasciare l’Unione. Del resto, i costi politici ed economici di un passo del genere, grazie alla Brexit, sono sotto gli occhi di tutti. Quella che rischia di più invece è la Gran Bretagna, che si trova a dover risolvere due situazioni spinose. La prima riguarda l’Irlanda del Nord, che sulla base dell’accordo concluso dal governo Johnson e Bruxelles nell’ottobre 2019, resta allineata alle regole dell’Ue e diventerà il punto di ingresso nella zona doganale dell’Unione. Alle elezioni di dicembre 2019, in Irlanda è stata eletta una maggioranza di parlamentari anti-Brexit e per la prima volta i Nazionalisti hanno sorpassato gli Unionisti. Il futuro delle relazioni con Londra è tutt’altro che certo. Si pone poi la questione della richiesta di un referendum per l’indipendenza della Scozia – rimasta largamente pro Ue – avanzata con forza dalla leader Nicola Sturgeon. Tenere il Regno unito non sarà facile.

Ci sono poi le relazioni con il resto del mondo, in primo luogo con gli Stati Uniti. Sia la Gran Bretagna che la Commissione europea, nelle parole dei rispettivi rappresentanti Johnson e von der Leyen, hanno ostentato un grande ottimismo sulla possibilità di concludere un accordo commerciale in tempi brevi con l’alleato d’Oltreoceano. Al di là dello scetticismo degli osservatori da entrambe le parti, che potrebbe essere smentito in questo frangente così fluido delle relazioni internazionali, nel caso britannico la posta in gioco sembra essere più alta. Gli Stati Uniti vengono infatti visti come una possibile alternativa all’Ue sulla scorta della consolidata relazione transatlantica. Ma, come dicevamo, l’Amministrazione statunitense ha oggi un approccio meno attento all’Europa e meno ancorato alle alleanze tradizionali e, soprattutto, percepisce la politica come un gioco a somma zero. Difficile pensare che l’Amministrazione Trump non sia tentata di approfittare del momentaneo stato di necessità del governo britannico. Inoltre, sono forti le distanze tra Gran Bretagna e Stati Uniti, dal dossier sul nucleare iraniano alle prospettive di pace in Medio Oriente, dai rapporti con la Cina alla questione ambientale. Il consolidamento del rapporto tra Washington e Londra potrebbe dunque essere più impervio del previsto.

Nella Brexit per ora non sembrano esserci vincitori e vinti, ma se il cammino dell’Ue appare segnato dalla forza delle regole, del mercato e delle istituzioni comuni, quello del Regno Unito è molto incerto e tutto da reinventare. Da buoni amici e vicini, non ci resta che augurare a Londra buona fortuna!