I tentennamenti di BoJo e il paragone con Churchill
Si dice che in politica una settimana sia un tempo molto lungo. Al premier britannico Boris Johnson sono serviti quattro giorni per un dietro-front radicale nella strategia del governo per fronteggiare la pandemia di coronavirus. Solo giovedì scorso aveva evitato di bandire raduni o imporre quarantene, dicendo tra le righe che l’avanzata del virus non poteva essere fermata ma solo “mitigata”. Chi ha sintomi stia a casa, tutti si lavino le mani, aveva detto. E i cittadini si preparino a perdere i propri cari “prima del tempo”.
Le nuove disposizioni
Lunedì il premier ha chiesto ai britannici di evitare pub, ristoranti e altri luoghi pubblici, di uscire solo quando necessario e lavorare da casa ove possibile. Un cambio di marcia drammatico rispetto all’idea dell’immunità di gregge inizialmente proposta dal governo. Quale fosse l’approccio migliore dal punto di vista medico è materia degli esperti, e le ripercussioni sociali di una quarantena prolungata non possono essere sottovalutate. Ma nel dietro-front, un primo ministro al quale si chiede leadership di fronte all’emergenza è apparso indeciso, tanto più dopo giorni di critiche e messaggi confusi del governo. E incapace di infondere la fiducia necessaria a un esecutivo che si prepara a scelte dolorose e cariche di conseguenze. Bastava guardare agli scaffali dei supermercati: il premier diceva business as usual, la gente faceva scorte di sapone e carta igienica come se si preparasse all’apocalisse. È toccato ai supermercati imporre autonomamente una sorta di razionamento alimentare.
A far cambiare idea al primo ministro è stato un documento dei consulenti del governo sul coronavirus. In un rapporto basato anche sui dati registrati in Italia, gli scienziati dell’Imperial College hanno spiegato che il rapido aumento dei malati e il tipo di trattamento necessario per molti di loro avrebbe richiesto un numero di letti in terapia intensiva otto volte superiore a quello disponibile nel Nhs, il servizio sanitario nazionale. E comportato qualcosa come 250 mila morti. Un costo umano insostenibile.
Ma anche il nuovo approccio ha destato confusione: Johnson ha invitato le persone a evitare pub e ristoranti, ma non li ha chiusi. “Siamo una democrazia matura e adulta“, ha spiegato. In questo ha ragione: i britannici sono pragmatici, hanno un alto senso civico e sopportano stoicamente le avversità, il loro famoso stiff upper lip. Già molte strade dalla capitale si sono svuotate. Ma cosa succede quando anche solo una minoranza decide di ignorare la raccomandazione? A peggiorare le cose ci si è messo anche il padre del primo ministro, Stanley Johnson, che ha detto alla televisione: “Se devo andare al pub, ovviamente andrò al pub”.
Economia e Brexit in difficoltà
Anche sul fronte economico, Johnson ha tentennato. Un giorno ha spiegato che il coronavirus avrebbe inferto “un colpo duro” ma di “breve periodo”. “I fondamentali dell’economia britannica restano molto forti”, aveva detto. “Questo non è il 2008, non c’è un problema sistemico nell’economia”. Il giorno dopo il governo ha annunciato un pacchetto di 350 miliardi di sterline per fronteggiare quello che il cancelliere ha definito la più grande sfida economica in tempo di pace. In molti hanno fatto paragoni non lusinghieri tra Johnson e il piglio deciso del presidente francese Emmanuel Macron.
Per Johnson, il coronavirus ha un effetto collaterale specifico: porterà probabilmente a un allungamento dei tempi della Brexit. Il secondo round di negoziati che avrebbe dovuto cominciare questa settimana – sulle relazioni future fra Londra e l’Unione europea – è stato rimandato, ed è difficile vedere come il Paese possa trattare con la Ue un accordo di ampia portata nel mezzo della crisi. Passato il picco dell’emergenza, le voci anti-Brexit potrebbero tornare a farsi sentire, tanto più se verrà confermata la notizia che nel Regno Unito un eventuale vaccino per il coronavirus potrebbe arrivare più tardi e costare di più a causa dell’uscita del Paese dall’Agenzia europea per i medicinali, prevista a fine anno, al termine del periodo di transizione.
Nel gestire l’emergenza Johnson si è (fortunatamente) affidato agli esperti, quegli stessi esperti tanto vituperati durante la campagna referendaria per la Brexit di cui lui è stato il volto. Ben vengano naturalmente. Ma non basteranno a salvaguardare il primo ministro da scelte meramente politiche che determineranno la vita di milioni di cittadini e la sua stessa premiership. Lo si può perdonare per i tentennamenti e gli errori commessi finora: dopotutto, per lui come per ogni altro leader questa è una situazione senza precedenti. Ma se vuole emulare il suo idolo, quel Winston Churchill di cui si considera l’erede politico, Johnson dovrà dimostrare ben altra leadership.