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PALAZZO DI VETRO

Il ruolo di Usa e Russia nel conflitto libico

11 Mag 2020 - Francesco Semprini - Francesco Semprini

Due miliardi di dollari al mese persi per il blocco dei pozzi, l’abuso di bombardamenti indiscriminati – compreso quello che ha interessato la residenza dell’ambasciatore italiano a Tripoli Giuseppe Buccino Grimaldi – e la Turchia poco incline a una guerra lunga e totale. Sono questi i motivi che hanno spinto il Governo di accordo nazionale (Gna), appoggiato dalle forze di Ankara, ad avviare la penetrante controffensiva a danni dell’autoproclamato esercito nazionale libico di Khalifa Haftar. Il tutto, e forse non a caso, quasi in coincidenza del primo anniversario del conflitto iniziato il 4 aprile 2019.

A questo si aggiunge il fallimento della tregua sancita a gennaio e gli appelli del segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, a un cessate il fuoco di tutti i conflitti del pianeta per agevolare le azioni di governi e organizzazioni internazionali nella lotta al coronavirus, caduti nel vuoto.

Infine, la certificazione della cronica impasse al Palazzo di vetro e alla sua roadmap per la pace in Libia giunta con la fallita candidatura dell’algerino Ramtane Lamamra alla guida della missione Onu nel Paese (Unsmil). Ciò a causa delle perplessità di alcuni Paesi membri, a partire dagli Stati Uniti, mentre l’Unione africana spinge per avere un suo uomo, individuato forse nel ministro degli Esteri della Mauritania, Ismail Ould Sheikh Ahmed, nonostante alcuni temano possa essere una figura debole.

Il ruolo degli Stati Uniti
Prima della controffensiva governativa la guerra sarebbe forse potuta terminare con un tweet del presidente americano Donald Trump. Il punto però è che gli americani hanno sempre fatto un altro tipo di gioco, mantenendo una posizione molto europea con il dipartimento di Stato e con l’ambasciatore Richard Boyce Norland. Una posizione non in linea con quella della Casa Bianca e i servizi di intelligence che sul campo fanno un altro tipo di politica, vedendo in Haftar l’interlocutore più efficace, soprattutto per il suo ruolo di argine al terrorismo come ha più volte sottolineato in colloqui telefonici con Trump il collega egiziano Abdel Fattah al-Sisi, uno dei principali sponsor dell’uomo forte della Cirenaica.

Una posizione che è confermata anche sul capitolo petrolio: l’amministrazione ha preferito non esporsi dinanzi alla chiusura dei pozzi da parte del generale, per altro arrivata il giorno prima della conferenza di Berlino mandando in fumo le speranze di una pace ancor prima del suo inizio. Allineandosi così al ragionamento di Egitto, Emirati e in parte della Francia, secondo cui la chiusura dei pozzi è giusta perché le entrate generate dall’oro nero “vengono utilizzate soprattutto per la guerra all’Est”. Così rispetto agli 1,2 milioni di barili prodotti regimi regolari, se ne producono 80 mila, con una perdita netta di due miliardi di dollari al mese, ovvero 24 miliardi di dollari a fronte di un bilancio libico che nel 2019 è stato di 56,3 miliardi di dollari.

Al danno emergente si sommano la perdita dell’indotto e il crollo degli affari legati al business del petrolio che fanno del collasso finanziario un moltiplicatore del conflitto. Così Tripoli è stata costretta a passare all’attacco, nonostante Turchia e Russia non abbiano interesse a uno scontro campale.

La partita tra Casa Bianca e Dipartimento di Stato
Con la controffensiva è scattato qualcosa che ha cambiato la lettura dal prisma americano e che potrebbe andare a mutare gli equilibri geopolitici. Khalifa Haftar ha aperto un ufficio di rappresentanza della “sua” Libia nell’ex sede diplomatica chiusa dopo la caduta di Muammar Gheddafi. Il generale ha negato vi sia stato un avvicinamento con Bashar al Assad e addirittura non ha confermato l’apertura di una sede.

Fonti informate riferiscono ad AffarInternazionali però dell’arrivo di mercenari siriani anche nell’Est della Libia, ovvero di combattenti o ex affiliati dell’esercito di Damasco, numericamente di meno rispetto che dei circa 11 mila mercenari turcomanni (dati dell’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria) già arrivati nell’ovest per schierarsi a sostegno del Gna e di Ankara. Siriani contro siriani quindi, così lo scontro che ha tenuto in scacco per quasi un decennio l’intero Medio Oriente si è spostato in Libia.

“Una sorta di procura della guerra per procura – spiega Daniele Ruvinetti, profondo conoscitore delle dinamiche libiche – Bisogna seguire l’evoluzione degli eventi alla Casa Bianca perché potrebbe esserci una svolta, seppur graduale”. Per l’inviato speciale americano per la Siria, Jim Jeffrey, il campo di battaglia potrebbe diventare ancora più complicato. “Sappiamo che certamente i russi stanno lavorando con Assad per trasferire combattenti della milizia, forse Paesi terzi, forse siriani in Libia, nonché attrezzature”, ha dichiarato.

Una realtà dinanzi alla quale anche Trump e i falchi dell’amministrazione potrebbero dover rivedere le proprie posizioni dal momento che lo scenario è quello di un Haftar “in quota” Teheran. L’allarme arriva anche da Israele con l’ambasciatore all’Onu, Danny Danon: “Sistemi d’arma iraniani sarebbero giunti sul territorio libico, in violazione dell’embargo imposto dal Consiglio di sicurezza”, di cui ha chiesto l’immediato intervento.

Affermazioni tutte da verificare, ovviamente così come sono state smentite categoricamente le voci di presenza sul terreno della Cirenaica di Hezbollah o addestratori provenienti dalla Repubblica islamica. Al di là di questo i nuovi sviluppi sono stati un’opportunità che il dipartimento di Stato non si è fatto sfuggire per rivendicare la centralità delle proprie posizioni pro-Gna e spingere per un riallineamento della Casa Bianca. “Gli Stati Uniti non sostengono l’azione dell’Lna contro Tripoli. L’attacco alla capitale devia le risorse da quella che è una priorità per noi, ovvero l’antiterrorismo”, ha affermato Henry Wooster, vice segretario aggiunto presso l’Ufficio degli affari del Vicino Oriente.

Ecco quindi che l’aggiunta del tassello siriano (lato Assad) nel mosaico libico fa gioco al governo di Tripoli, perché se Haftar aveva tra gli sponsor Paesi strettamente collegati agli Usa, come Egitto e Emirati, ora alla già ingombrante presenza dei mercenari della russa Wagner ci sarebbe l’incursione della “lunga mano di Teheran”. Il che riabiliterebbe il Gna rispetto alla benedizione trumpiana che aveva l’altro fronte, riequilibrando la situazione dopo l’accordo tra Tripoli e Ankara sullo sfruttamento delle acque orientali del Mediterraneo e la reazione di Grecia, Cipro e Italia.

La seconda parte dell’articolo è stata pubblicata su AffarInternazionali martedì 12 maggio 2020.