Ue-Cina, Trump e Brexit. Parla Gideon Rachman
Gideon Rachman è il Chief Foreign Affairs columnist del Financial Times. Accetta di conversare con AffarInternazionali e Radio Radicale.
“Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, afferma di voler guidare una Commissione geopolitica. Ma von der Leyen ha concluso il 2020 inviando un messaggio geopolitico davvero terribile, con la sua Commissione che concludeva un trattato sugli investimenti tra Ue e Cina“. Comincia così un suo recente editoriale sul Financial Times. Perché considera il messaggio della presidente così terribile?
“È terribile perché è arrivato alla fine di un anno in cui la Cina ha compiuto una serie di azioni aggressive. Firmando l’accordo l’Ue ha fatto capire, senza realmente volerlo, di non preoccuparsi molto di queste azioni. Per riassumere, nel corso dello scorso anno la Cina ha soppresso le libertà a Hong Kong, ha ucciso soldati delle truppe indiane, ha minacciato di invadere Taiwan, ha sanzionato l’Australia. Pechino ha inoltre adottato un comportamento piuttosto aggressivo verso le critiche mosse in seguito allo scoppio della pandemia di Covid-19, ad esempio opponendosi all’idea di un’indagine internazionale al riguardo, che finalmente sta prendendo il via. Hanno usato quella che loro stessi chiamano la wolf-warrior diplomacy, ovvero una risposta aggressiva. Credo che con la firma dell’accordo, l’Ue abbia inviato una sorta di rassicurazione alla Cina che non ci sarebbe stato nessun prezzo economico da pagare per questo.
In secondo luogo, credo che l’amministrazione Biden desideri ardentemente cooperare con l’Europa per quanto riguarda la questione Cina. Jake Sullivan, il consigliere per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Biden, ha fatto appello all’Ue non tanto per scoraggiare la firma dell’accordo, ma per temporeggiare almeno finché avessero avuto la possibilità di discuterne con gli americani. Ma l’Ue è andata comunque dritta per la sua strada. Credo che questo fatto lanci un messaggio negativo sia a Washington che a Pechino, ovvero che sarà relativamente facile per la Cina dividere il mondo occidentale e che non ci sarà una risposta coordinata da parte di questi Paesi”.
Questo approccio con la Cina potrebbe creare problemi nei futuri rapporti dell’Europa con la nuova amministrazione Biden?
“Sicuramente. Credo che la principale preoccupazione dell’amministrazione Biden in termini di politica estera sarà la Cina; è la problematica maggiore degli Stati Uniti. Penso che una parte fondamentale dell’approccio degli uomini di Biden sia proprio una collaborazione con l’Europa. Per questo sono rimasti sorpresi e contrariati dalla velocità con cui l’Ue ha siglato questo accordo, prima ancora di discuterne con l’amministrazione Biden. Non credo che questo significhi che rinunceranno a collaborare con l’Europa; dopotutto ne hanno bisogno; come ho già detto, non ci sono altre opzioni.
Credo, tuttavia, che l’attitudine di Washington verso l’Europa potrebbe cambiare, qualora ritenesse gli europei non più utili alla propria causa. Durante la guerra fredda l’Europa era la principale preoccupazione degli Usa, rappresentava il palcoscenico centrale della rivalità con l’allora Unione Sovietica (pensiamo ad esempio al muro di Berlino). Ora non è più così. Gli Usa sono ancora il garante della sicurezza europea, tramite la Nato, le truppe americane, ma le maggiori preoccupazioni in materia di sicurezza sono ora in Asia. È una situazione sostenibile, a patto che l’Europa non inizi a minare concretamente la posizione americana in Asia.
L’impegno degli Usa a proteggere l’Europa andrebbe a diminuire qualora percepissero che gli europei stanno attivamente contestando la loro posizione in quella che è la loro battaglia principale, ovvero quella contro la Cina”.
Non si era sempre detto che gli scambi commerciali avrebbero aiutato la diffusione dei principi liberali nei Paesi non democratici?
“Certo, si è sempre detto ciò ma è evidente che non è così, almeno nel caso della Cina. Credo che questo sia la ragione di fondo di questa preoccupazione. George W. Bush, ai tempi in cui la Cina entrò a far parte dell’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001, aveva affermato: Commerciamo liberamente con la Cina e il tempo è dalla nostra parte. In altre parole, credeva che il libero scambio, un’economia liberale avrebbero portato a una politica liberale. Ma di fatto poi è accaduto il contrario in Cina.
L’avvento alla presidenza di Xi Jinping ha portato a uno stile molto più totalitario: Pechino non è mai stata una democrazia, ma sotto Xi si è aggiunta una sorta di culto della personalità al modo in cui il Paese viene governato. Il pensiero di Xi è stato incorporato nella costituzione cinese, mentre il limite della durata del mandato presidenziale (introdotto dopo l’era di Mao per scongiurare il ritorno a una dittatura) è ora stato abolito, quindi è probabile che Xi rimarrà a capo del Paese a vita. E ancora, la già limitata libertà di espressione è stata oggetto di ulteriori pesanti restrizioni. È abbastanza percepibile – almeno per me che sono stato in Cina con una certa regolarità negli anni più recenti – che ora non sarebbe più possibile avere un certo tipo di conversazioni con gli intellettuali cinesi. Ad esempio, al ristorante, sarebbe difficile discutere apertamente sul fatto che la Cina sarebbe dovuta diventare o meno una democrazia. Le persone hanno paura e la Cina sta diventando un Paese sempre più autoritario“.
Vuole spiegare la centralità del diritto?
“Ritengo sia il diritto che dovrebbe contraddistinguere le democrazie, ovvero iniziare dalla protezione dei diritti individuali, i diritti dell’uomo, e diffondere questo principio in tutto il mondo. Bisogna stabilire un equilibrio tra l’esigenza di cooperare con Paesi come Cina, Russia, ecc. su una serie di tematiche internazionali (commercio, clima ecc.) e contemporaneamente l’esigenza di insistere sui valori dell’umanità e dei diritti umani. Questo non solo perché si tratta di diritti fondamentali, ma anche per proteggere noi stessi. In altre parole, ciascuno di noi dovrebbe essere in grado di immaginare che anche noi potremmo trovarci privati dei nostri diritti, se le cose nel nostro Paese dovessero cambiare e volgere al peggio; in questo caso chiederemmo aiuto al resto del mondo”.
Che idea si è fatto sull’epilogo della presidenza Trump negli Stati Uniti?
“Credo che l’epilogo dell’amministrazione Trump sia stato ancora più caotico della presidenza stessa. Tutti sono rimasti scioccati dall’assalto a Capitol Hill. Siccome gli Stati Uniti sono la più grande potenza mondiale, questo ha ripercussioni a livello globale. Credo inoltre che l’amministrazione Trump abbia concluso il proprio mandato con una serie di azioni irresponsabili a livello internazionale. Giusto per citarne una: gli Usa hanno appena dichiarato il movimento yemenita degli Houthi “organizzazione terroristica”, un provvedimento che renderà particolarmente difficile fare affari con lo Yemen e inviare forniture alimentari, con l’Onu che ha già lanciato l’allarme per una possibile carestia. Questa azione è stata compiuta per creare problemi politici alla futura amministrazione Biden, ma di fatto si sta giocando con la vita delle persone e rischiando lo scoppio di una gravissima carestia. La presidenza Trump si è conclusa in modo indegno, ma spero che con l’inizio della presidenza Biden alcune delle cose più gravi fatte dall’amministrazione precedente miglioreranno”.
Il Regno Unito comincia il suo percorso fuori dalla Ue. Che momento sarà?
“Per quando riguarda la Gran Bretagna, credo che la Brexit riceverà più attenzione di quanta ne abbia ricevuta nella sua fase iniziale per via del Covid-19. Il Regno Unito, così come l’Italia e altri Paesi, si è concentrato sul gran numero di morti, sui gravi danni all’economia, i vari lockdown. La Brexit sta quindi ricevendo meno attenzione e credo che i segnali iniziali non siano stati molto positivi. È evidente che ci sono problematiche nell’ambito delle normative commerciali per i traffici tra Gran Bretagna e Irlanda del Nord, parte dello stesso Paese ma non più parte della stessa unione doganale.
Una prima questione è che si stanno verificando problemi di carenza delle derrate alimentari verso l’Irlanda del Nord, a causa delle difficoltà di movimento delle merci dalla Gran Bretagna. Il secondo riguarda l’industria ittica, ironicamente il settore che più di tutti doveva beneficiare della Brexit, ma che in realtà sta decisamente arrancando. Ora è necessario compilare appositi moduli per l’invio dei prodotti ittici alla Francia o altrove, cosa che gli addetti ai lavori non sono in grado di fare; le esportazioni stanno crollando. Questi sono i primi segnali di una situazione problematica. Non dimentichiamo Londra, che già dal primo giorno fuori dall’Ue ha visto le attività di trading delle azioni europee, un giro d’affari incredibile per la City, spostarsi ad Amsterdam. Ecco, questo è un altro colpo.
Molto sta andando per il verso sbagliato, anche se ci sono un paio di cose che hanno iniziato ad andare per il verso giusto, in particolare i vaccini. A questo proposito, il Regno Unito si è mosso molto velocemente. Tecnicamente, avremmo potuto fare lo stesso anche all’interno dell’Ue, ma di fatto sembra che ci sia una pressione verso tutti i Paesi Ue ad agire all’unisono e non effettuare ciascuno il proprio acquisto di vaccini, nell’interesse dell’unità europea. Il Regno Unito, in procinto invece di uscire dal mercato unico, ha avuto la possibilità di ignorare queste direttive e ha acquistato milioni di vaccini. Questo è un esempio di come forse la Brexit ci ha aiutato, ma ritengo che nel complesso ci sia un’ansia crescente riguardo l’impatto economico della Brexit.
Resto convinto che le persone che hanno votato per l’uscita dall’Europa non erano fondamentalmente interessati ai risvolti economici: è stato più per preoccupazioni politiche astratte legati alla sovranità. Queste persone potrebbero essere pronte ad accettare alcuni costi in termini economici, specialmente se non ricadono direttamente sulle loro spalle, se a perdere il lavoro sono altri. La mia preoccupazione è che nel lungo periodo l’economia britannica ne soffrirà, non in modo catastrofico, ma a lungo termine avremo meno posti di lavoro e meno crescita”.
Foto di copertina World Economic Forum swiss-image.ch/Photo by Moritz Hager