“La storia non è finita”: il capitalismo raccontato da Giorgio Arfaras
Con l’economista Giorgio Arfaras, autore del libro “La storia non è finita – Dalle origini del capitalismo alle varianti occidentale e orientale”, da poco uscito per Guerini e Associati, ragioniamo su alcuni dei temi trattati nel testo, come capitalismo, disuguaglianze, crescita economica, Europa.
Quali tipi di capitalismo abbiamo avuto dal XX secolo? Quali sono le sue “varianti occidentale e orientale”?
Il capitalismo “liberale” ottocentesco è stato messo in crisi dalla depressione degli anni Trenta. Il capitalismo “interventista”, che lo ha sostituito soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale, negli anni Settanta è stato messo in crisi dalla combinazione di inflazione e bassa crescita. Il capitalismo “neo-liberale” che ha sostituito quest’ultimo dagli anni Ottanta è durato fino alla crisi del coronavirus. Con la crisi pandemica abbiamo il connubio di capitalismo interventista e neo-liberale. La Cina ormai “risorta” accetta molti degli insegnamenti occidentali in campo economico, ma rigetta quelli politici. Nel Partito comunista la Cina ha un modello (moderno) per il suo (antico) sistema di sovranità imperiale e di burocrazia meritocratica. Il Partito è l’Imperatore che controlla tutto. La combinazione del Partito-Imperatore con un’economia di mercato ha un nome: Capitalismo politico.
Come demografia e fenomeni migratori incidono oggi sulla crescita economica?
La grande crescita si è avuta grazie all’urbanizzazione, ossia al passaggio dall’agricoltura all’industria, e all’esplosione della popolazione giovane. Nessuno di questi fenomeni è oggi in azione, perciò la crescita economica in Occidente ha rallentato. Questi fenomeni – l’urbanizzazione quasi compiuta e la popolazione che invecchia, si stanno manifestando anche in Cina. Nei secoli scorsi abbiamo avuto dei fenomeni migratori interni, ossia il passaggio dall’agricoltura all’industria, nel caso italiano dal Meridione al Nord, e dei fenomeni migratori esterni, ossia la grande migrazione verso le Americhe, che erano molto poco popolare. Oggi abbiamo una migrazione verso le aree non solo molto popolate e dove prevalgono le classi di età anziane. Inoltre oggi, a differenza di ieri, è richiesta una forza lavoro qualificata da un’economia che non può crescere come nel passato. In questo senso la migrazione odierna è un fenomeno nuovo.
Nel suo libro affronta il tema delle disuguaglianze. Come sono cresciute dalla rivoluzione industriale ad oggi? In che modo si possono ridurre?
Dalla rivoluzione industriale le disuguaglianze, misurate dalla diffusione della salute e dell’istruzione, si sono fortemente ridotte. Una volta gli ultra-benestanti vivevano molto più a lungo degli altri, oggi non più. Una volta, al di là di una minoranza, quasi tutti erano analfabeti, oggi sono quasi tutti alfabetizzati. La disuguaglianza di cui si parla è però quella legata alla distribuzione del reddito. Le differenze di reddito in Occidente sono oggi molto minori di quelle di una volta. In particolare, le differenze di reddito se misurate dopo le imposte e tenendo conto dei trasferimenti dello stato, sono ancora meno marcate. Negli ultimi decenni le differenze di reddito sono però aumentate, e di questo si parla, ma se si va indietro nel tempo si vede che le differenze di reddito si sono ridotte parecchio.
Qual è il punto di vista maggioritario e quello minoritario su quello che sta succedendo nei Paesi democratici di capitalismo avanzato? In che modo si colloca la mobilità sociale?
Si sta affermando l’economia “della conoscenza” che retribuisce molto chi ha la preparazione necessaria. Inoltre le donne, che ormai studiano fino ai massimi livelli, alimentano la concentrazione dei redditi, perché si sposano con persone di un livello di reddito e di istruzione equivalente. Abbiamo così una doppia spinta verso la disuguaglianza: i saperi richiesti che occupano i pochi che guadagnano molto e i matrimoni fra simili che guadagnano bene. Questa doppia spinta verso la disuguaglianza si blocca se si torna alle tecnologie precedenti e se le donne tornano fra le mura domestiche. Ed ecco il punto di vista minoritario. Poiché questo ritorno è assai improbabile, una soluzione è lasciar correre la disuguaglianza redistribuendo i redditi attraverso la fiscalità. La scommessa del punto di vista minoritario è quella che afferma che la crescita della disuguaglianza tassata possa generare un reddito da distribuire maggiore di quello che si avrebbe riportando l’economia al passato. Il punto di vista maggioritario desidera una maggiore eguaglianza, che otterrebbe non lasciando correre la disuguaglianza. L’obiettivo si otterrebbe solo fermando le innovazioni.
Nel suo libro parla anche di Europa. Qual è la sua opinione sul funzionamento attuale dell’Unione europea? Cosa risponde a chi vede nell’uscita dall’euro una soluzione alla crisi?
L’Europa politica si può costruire solo a partire da quella economica. Grazie alle crisi che spingono il processo politico, la costruzione europea prende forma. Per esempio, la crisi pandemica ha dato spinta a emettere un debito comune per farvi fronte. I difetti di cui si parla, come la lontananza dai cittadini e la mancanza di una politica estera comune dell’Unione, non sono immediatamente risolvibili. Ci vuole tempo. L’Italia aveva un debito pubblico costoso, un costo del denaro per le aziende e le famiglie altrettanto costoso. La ragione era nella spinta a generare inflazione del sistema di allora. Per coprirsi dall’inflazione si chiedeva un interesse elevato. Grazie all’euro, il costo del denaro in Italia si è compresso. In questo modo si può far meglio fronte al debito pubblico e privato e quindi modernizzare il Paese. Con la lira tornerebbe sotto traccia la tentazione di governare con l’inflazione i molti conflitti di interesse. La tentazione di usare il bilancio pubblico per acquisire consenso, tentazione che in passato ha generato il gran debito, grazie all’euro diventa certo non impossibile, ma molto difficile.
Cosa c’è all’origine del populismo? Quale interrogativi solleva sul concetto di rappresentanza?
Non è chiaro quanto il populismo sia una vicenda con radici culturali, come mostra il desiderio di mantenere le identità messe in crisi dalla modernizzazione, piuttosto che con radici economiche, come mostra la sua insorgenza nelle aree colpite dalla globalizzazione. O meglio, non è chiaro quale peso dare alle due radici. Il Populismo è una corrente politica contraria al potere costituito, favorevole all’autoritarismo, e, non ultimo, al nativismo. Il populismo ha fede nella saggezza – perché sa che cosa si deve fare, e nella virtù – perché è ontologicamente onesta, della gente ordinaria – ordinary people, silent majority, in contrapposizione alle classi dirigenti che sono corrotte – ed anche incapaci, da qui la polemica sugli specialisti che nulla sanno, e sull’inutilità del sapere scientifico. Si noti che la gente ordinaria è considerata dai populisti una massa omogenea capace di esprimere un solo punto di vista, talmente ovvio, ossia facile da conoscere senza alcuna ricerca, da essere tosto condiviso. Gli interrogativi che solleva sono evidenti. L’espulsione della complessità e della delega agli specialisti dalla vita politica alla fine non può che alimentare l’autoritarismo.
L’ultima domanda che solleva nel suo libro è “Quali soluzioni per il Bel Paese”?…
In tutti i Paesi sviluppati, quindi Italia compresa, si sono da tempo esaurite alcune delle caratteristiche della grande crescita del Secondo dopoguerra, l’uscita dalla povertà legata al passaggio dall’agricoltura alla manifattura, e la demografia positiva. Nel caso italiano si hanno dei vincoli che rallentano la già modesta spinta alla crescita che si ha in tutti i Paesi: l’alfabetizzazione ritardata, la polverizzazione dell’apparato produttivo, e il gran debito pubblico. In Italia, infine, e di nuovo a differenza di molti altri Paesi, esiste il nodo secolare legato alle grandi disparità regionali.
Un primo passo per spingere il Bel Paese verso un’ulteriore modernizzazione è stato fatto con la decisione di aderire al sistema dell’euro che impedisce di mantenere in vita le debolezze del Paese con gli aggiustamenti legati all’inflazione e al cambio. Restano ancora aperti e di davvero difficile soluzione i problemi strutturali che hanno radici secolari come il Meridione e la polverizzazione dell’apparato produttivo.