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La nuova intesa

Aukus: il fronte anglosassone nel Pacifico che esclude la Francia

22 Set 2021 - Elio Calcagno - Elio Calcagno

L’annuncio di un accordo trilaterale tra Usa, Australia e Regno Unito (Aukus) apre nell’Indo-Pacifico un nuovo fronte di contenimento in chiave implicitamente anti-cinese. A parte le puntuali critiche di Pechino, ha fatto scalpore la decisione della Francia di richiamare i propri ambasciatori da Washington e Canberra proprio in seguito a questo accordo.

La Francia e l’Australia avevano infatti firmato nel 2016 un contratto del valore di 56 miliardi di euro per 12 sottomarini convenzionali, che sarebbero stati costruiti dalla francese Naval Group nel Paese oceanico. Il programma però aveva già da tempo iniziato ad accumulare ritardi ed era da subito stato accompagnato dallo scetticismo di addetti ai lavori, che addirittura avevano consigliato al governo di iniziare a cercare alternative nonostante il programma fosse già avviato.

Fra i tasti dolenti per Canberra anche una serie di dissensi con Naval Group sulla percentuale di lavoratori australiani da coinvolgere nella costruzione di sottomarini, e la difficoltà nell’ottenere dalla compagnia francese l’impegno a spendere almeno il 60% del valore totale del contratto in Australia.

Il fatto che il governo australiano stesse cercando alternative all’ormai defunto programma Future Submarine era già chiaro da mesi e Parigi ne era certamente al corrente. Erano emersi molti dubbi, infatti, sull’adeguatezza di una flotta di sottomarini convenzionali a fronte della vastità degli oceani che separano Australia e Cina – vero e proprio “elefante nella stanza” nel contesto nell’annuncio dell’accordo trilaterale. Ecco allora Aukus, che nel quadro di un più ampio partenariato militare e politico si pone come primo obiettivo concreto quello di dotare l’Australia di una flotta di 8 sottomarini d’attacco a propulsione nucleare, affondando di conseguenza il contratto con Naval Group.

L’opzione nucleare
I sottomarini nucleari non sono necessariamente superiori a quelli convenzionali. Ogni confronto deve per forza tener conto del contesto in cui l’ipotetico mezzo subacqueo è chiamato ad operare. Quelli nucleari hanno costi di costruzione e manutenzione elevatissimi, ma possono sostenere velocità più elevate e godono di un raggio d’azione in immersione limitato solo dalla necessità di fare scorta di viveri o ruotare l’equipaggio. Sono quindi ideali per operazioni a lunga distanza da porti amici – come raccontato nel celebre “Caccia a Ottobre Rosso”.

Un sottomarino convenzionale, al contrario, è costretto a dover far emergere lo snorkel per consentire a motori diesel di ricaricare le batterie che alimentano i motori elettrici usati in immersione. Tale caratteristica li rende più vulnerabili dei sottomarini nucleari se impiegati in operazioni a lungo raggio, ma non influisce sulla loro efficacia in operazioni in acque costiere e poco profonde, dove sono anzi più manovrabili in virtù delle loro dimensioni più contenute.

È dunque evidente che, per una flotta oceanica che ambisce a proiettare le proprie forze a grande distanza, i sottomarini nucleari sono tendenzialmente preferibili a quelli convenzionali. Eppure nel cercare un sostituto all’attuale flotta sottomarina Canberra aveva inizialmente scelto l’opzione offerta da Naval Group, ritenendo di non possedere le capacità tecniche e industriali necessarie per armare e mantenere una flotta di sottomarini nucleari.

La furia di Parigi
Nell’annunciare Aukus, i leader dei tre Paesi coinvolti hanno spiegato che questa “partnership di sicurezza” vuole migliorare fra le altre cose i legami nell’ambito della difesa, la condivisione di informazioni e tecnologie, e l’integrazione delle filiere produttive. Si parla anche di aumentare l’interoperabilità, compresi i campi del cyber e dell’intelligenza artificiale. Il patto rappresenta con ogni probabilità un tentativo da parte di Washington di creare un gruppo ristretto di Paesi affini che possa coltivare un una visione strategica armoniosa nello scacchiere dell’Indo-Pacifico. Ecco forse spiegata la furia di Parigi, che fra comunicati stampa e rappresaglie diplomatiche ha espresso la propria frustrazione nell’essere stata esclusa da un’iniziativa che le avrebbe permesso di trovare partner preziosi all’interno dell’Indo-Pacifico, dove vivono oltre un milione e mezzo di francesi dei Territori d’Oltremare e che racchiude il 93% della zona economica esclusiva francese, peraltro la più grande del mondo.

Guardando avanti, è difficile che la Francia possa riuscire a coinvolgere una quantità e qualità sufficiente di risorse Ue per sostenere una propria proiezione in loco e distribuire lo sforzo richiesto dal pattugliare e difendere un’area d’interesse così estesa, nonostante Bruxelles abbia preso atto dell’importanza di dispiegare forze nella regione. Altrettanto improbabile sarebbe stato un invito da parte di Washington a prendere parte al nuovo patto nella sua forma attuale, all’interno del quale Parigi non avrebbe voluto accettare un ruolo secondario – che invece ha pragmaticamente accolto il Regno Unito.

Il nodo per la Nato
Resta comunque un nodo politico tra gli alleati Nato. Ferma restando l’autonomia nazionale nel giocare ciascuno la propria partita industriale, dal momento che la Cina è entrata nell’agenda dell’Alleanza atlantica su spinta degli Stati Uniti questi ultimi avrebbero dovuto perlomeno informare per tempo gli alleati europei che stavano impostando un accordo trilaterale con Londra e Canberra. In ogni caso, Parigi si trova oggi in una posizione difficile rispetto all’Indo-Pacifico: esclusa dall’Aukus, e sola in ambito Ue ad avere interessi diretti nell’area tali da suscitare un forte impegno strategico – anche a giudicare dalla scarsità di reazioni ufficiali in altri Paesi europei all’affaire franco-australiano.

Superata l’ira iniziale, una reazione pragmatica potrebbe consistere in un approccio che commisuri meglio ambizioni e risorse, e che si ponga in modo più costruttivo sia verso i Paesi europei con un qualche interesse nell’area, sia in ambito transatlantico e nel quadro della cooperazione Nato-Ue.

Foto di copertina EPA/RICHARD WAINWRIGHT