Le difficoltà dell’India bifronte nel contesto multilaterale
Sarebbe un errore stupirsi troppo dell’annuncio dato a sorpresa a Glasgow dall’India di voler rinviare al 2070 il raggiungimento della neutralità carbonica. Dietro la mossa di Narendra Modi, presentata all’ultimo momento da un suo ministro di secondo piano così da evitare di sottostare ad un dibattito di sostanza, che avrebbe rischiato di far cappottare la Cop26, vi sono ragioni economiche e sociali più che giustificate, ma anche aspetti tradizionali del modo di essere della politica estera indiana e del suo relazionarsi con il resto del mondo.
L’India si considera – e in larga misura è – un gigante politico in crescita, ma rimane un gigante economico in forte chiaroscuro: una divaricazione che si riflette nell’articolazione sociale di un Paese fortemente diseguale. Da un lato vi è l’India dei tassi di crescita che tornano a superare l’8%, delle eccellenze tecnologiche e dei centri universitari che ne fanno un leader mondiale dell’innovazione; dalla classe media che rappresenta un mercato di consumo pari a quello dei maggiori paesi Ue presi insieme; inserita pienamente nella globalizzazione e i cui “cervelli in fuga” verso gli Usa – e non solo – sono alla testa di grandi multinazionali e di molte istituzioni finanziarie internazionali. È l’India che si appresta a ospitare il G20 nel 2023 e con la quale è importante per noi collaborare.
Poi c’è l’India rurale e delle periferie delle megalopoli, in cui duecento e più milioni di persone non sono alfabetizzate e vivono al di sotto della soglia di povertà estrema; che non ha accesso a reti di trasporto ed elettricità e a strutture sanitarie degne di questo nome; dove l’aspettativa di vita resta molto più bassa e i suicidi degli agricoltori, incapaci di sostenere i costi delle sementi Ogm indispensabili per ottenere raccolti migliori, sono decine di migliaia ogni anno.
È un’India nella quale sono stati fatti molti progressi; l’estensione capillare della telefonia mobile a costi ridotti ha permesso anche alle aree più remote di uscire dall’isolamento (per capirne la portata, ancora alla fine dello scorso millennio, quando i cellulari erano merce rara, ci voleva quasi sempre una raccomandazione diretta del primo ministro per avere una linea telefonica); l’introduzione di un nuovo sistema universale di documenti di identità ha permesso di programmare con più efficacia gli interventi; l’estensione della rete di banche rurali per la gestione dei sussidi ha facilitato l’accesso al microcredito che dovrebbe contrastare l’usura; le barriere fra le caste restano rigide ma crescono i meccanismi della rappresentanza locale. È un’India che cerca faticosamente di imparare l’inglese – chiave indispensabile per l’accesso a lavori più qualificati –, che è ancora lontana dal mercato dei consumi, ma alla cui soglia si avvicina di anno in anno in numeri sempre maggiori. Quando avrà raggiunto una massa critica e il mercato dovrà soddisfare le esigenze di centinaia di milioni di nuovi consumatori, è evidente che le strutture attuali – che già fanno fatica a reggere alla domanda – esploderanno se non verranno seriamente potenziate (secondo il Financial Times, nei prossimi decenni il Paese assorbirà un terzo della domanda mondiale di condizionatori).
L’India dipende dal carbone. Nella ricerca del difficile equilibrio fra neutralità carbonica e domanda di consumi crescente, ritiene di non poterne fare ancora a meno e alle 281 centrali in attività ne aggiunge 28 in costruzione e 23 in progetto. L’inquinamento dal carbone rende l’aria irrespirabile nelle città e riduce l’aspettativa di vita, ma altrettanto se non più – si risponde – fanno la fame e il sottosviluppo, che restano la vera priorità del Paese. L’obiettivo di aumentare sino al 50% la quota di energie rinnovabili entro il 2030 appare soprattutto politico e non tiene abbastanza conto della difficoltà tecniche e dei costi. Tutto giusto, ma sarebbe stato ragionevole porre il problema nel corso della conferenza – dove avrebbe trovato critiche, ma anche eco – anziché ricorrere ad un annuncio a sorpresa che portava con sé un sapore di ricatto. Ma qui entra in gioco la visione indiana delle sue relazioni col resto del mondo.
La Cina è l’antagonista, il concorrente e la pietra di paragone che rappresenta una vera ossessione dell’atteggiamento internazionale del Paese. Se Xi Jinping ha ritenuto di poter deviare di dieci anni dall’obiettivo su cui tutti si erano in precedenza impegnati, della neutralità carbonica entro il 2050, non vi era ragione perché Modi non facesse lo stesso: anzi di più, rivendicando una autonomia e un potere di condizionamento almeno pari a quelli dell’altro gigante asiatico. La Cina la sua mossa l’aveva in qualche modo preparata e, quando è giunta, è stata bene o male accettata (col sollievo nascosto di qualcuno). L’India no: ha rilanciato di altri dieci anni quasi senza preavviso, dimostrando ancora una volta la difficoltà di muoversi con efficacia nel contesto multilaterale, dove alla ricerca di un punto d’incontro reciprocamente vantaggioso tende spesso a preferire una logica di contrapposizione di forza, lasciando pochi spazi alla mediazione. Gli indiani sono negoziatori spigolosi e nel loro approccio si confondono vecchi residui di sensi di inferiorità, l’eredità della stagione del terzomondismo e una immagine di sé che è tanto convinta, quanto non necessariamente rispondente alla realtà. Talvolta la rigidità paga – come a Glasgow – ma il profilo internazionale del Paese e la sua capacità di aggregazione del consenso ne risentono: non è un caso se Delhi ha rapporti difficili con tutti i suoi vicini e se il negoziato per l’accordo di libero scambio con l’Ue si trascina da più di un quindicennio.
Modi ha ribadito con forza il punto che i Paesi industrializzati, veri responsabili dell’inquinamento ambientale, devono mettere a disposizione risorse ingenti – mille miliardi – per aiutare i Paesi meno ricchi ad affrontare i costi di una lotta al cambiamento climatico di cui sono storicamente assai più vittime che complici. Giusto ancora una volta: le responsabilità ci sono, devono essere affrontate da tutti e più deboli non possono essere lasciati al loro destino. L’India però deve decidere se vuole continuare a presentarsi come un paese demandeur bisognoso di aiuto, oppure come una grande potenza globale emergente, tesa ad inseguire e magari a superare la Cina con tutti i diritti e le obbligazioni che ne conseguono. Le Indie sono almeno due, come abbiamo detto, ma la scelta non può non essere univoca.
EPA/INDIA MINISTRY OF DEFENSE