Cautela o azzardo? Negoziare il futuro della Brexit durante la pandemia
I due capi negoziatori della Brexit, Michel Barnier, per l’Unione europea, e David Frost, per il Regno Unito, sono tornati sul ring delle trattative. Dopo l’uscita formale di Londra dall’Unione lo scorso 31 gennaio, è iniziata la fase di transizione (o implementation period, come preferiscono chiamarlo Oltremanica), finalizzata alla sigla di un accordo commerciale tra le parti che andrà a sostituire i meccanismi vigenti del mercato unico e dell’unione doganale. Un tempo strettissimo, undici mesi in tutto, ridottosi ancor di più in seguito allo scoppio della pandemia globale generata dalla diffusione del coronavirus.
Sarebbe stato un negoziato ostico a prescindere, ma gli stop causati dall’emergenza sanitaria hanno reso la strada verso l’intesa ancor più tortuosa. Lo stesso Barnier, risultato positivo al virus, ha dovuto annullare la tornata dei negoziati di marzo e analoga sorte è toccata al premier Boris Johnson, costretto a cedere le redini del governo al suo braccio destro, Dominic Raab. Tutto ciò ha alimentato le pressioni sull’esecutivo britannico affinché richieda entro il termine del 30 giugno un allungamento del periodo di transizione, oppure lo accolga, nel caso in cui sia l’Ue a sollecitarlo. Entrambe possibilità avversate apertamente dal premier.
Il tempo è denaro
L’ostinazione nell’opporsi all’estensione dei tempi sembra essere motivata sia da ragioni economiche che politiche. Qualora la fase due delle trattative dovesse essere prorogata oltre la scadenza del 31 dicembre, il Regno Unito si troverebbe a dover partecipare perlomeno a una parte del prossimo bilancio europeo 2021-2027 (se adottato nei tempi, ndr) – un bilancio inevitabilmente lievitato dopo la pandemia – e a dover sottoscrivere nuovi impegni finanziari. Non solo, sarebbe vincolato alla policy commerciale europea senza poter stipulare accordi con altri Paesi.
È probabile quindi che Johnson – tornato a Downing Street dopo tre settimane di convalescenza – voglia compiacere la parte più brexiteer dell’elettorato britannico e preferisca così fare muro contro muro con l’Ue. A meno che non confidi davvero nella possibilità di giungere a un’intesa soddisfacente in appena otto mesi. Da quanto è emerso, tuttavia, alla ripresa dei colloqui, tenutisi in videoconferenza, le posizioni di Londra e Bruxelles sono quanto mai divergenti, se non addirittura inconciliabili.
Il modello canadese
La difficoltà della trattativa non dipende infatti solo dal poco tempo a disposizione e dal gran numero di nodi da sciogliere, ma dal fatto che le due parti si stiano muovendo da premesse opposte. Da un lato, il Regno Unito ambisce a ottenere la massima autonomia e sovranità in termini di regole e standard, minimizzando però le conseguenze negative della Brexit; dall’altro, l’Unione punta a un’intesa profonda, con un allineamento su ambiente, aiuti di Stato, norme sul lavoro, sussidi alle imprese e leggi sulla concorrenza.
Lo scontro è nato proprio sul cosiddetto level playing field, quel pacchetto di disposizioni, già previste nella Political Declaration allegata all’accordo di divorzio, necessario per evitare una competizione sleale tra gli Stati, sul quale però Frost non ha voluto impegnarsi, ritenendo l’offerta europea ben al di sotto di quanto concordato in fatto di commercio con altri Stati sovrani.
Il modello a cui guarda Londra è il Comprehensive Economic Trade Agreement (Ceta), stipulato dall’Ue col Canada, che non include gli aspetti sui quali sta insistendo Barnier, ma prevede comunque delle condizioni di parità, come quelle ad esempio sui diritti di proprietà intellettuale. Per la firma di un simile accordo Bruxelles ha impiegato ben sette anni. Appare quindi improbabile che si possa raggiungere qualcosa di analogo in tempi ragionevolmente brevi, specie per un esecutivo ostile anche solo a un’estensione dei negoziati di un anno o due, per di più in circostanze straordinarie come quelle attuali.
Lo scenario del no deal
I prossimi due round negoziali, della durata di una settimana, sono fissati per l’11 maggio e il 1° giugno. Uno spazio di manovra davvero esiguo per compiere progressi sostanziali, considerato che restano ancora da sbrogliare le questioni legate ai diritti di pesca nelle acque britanniche, tema caro alla europeista Scozia, e al confine tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda, rimasto aperto anche durante il lockdown.
Verosimilmente, Johnson dovrà fare marcia indietro sul no alla dilazione del periodo di transizione, proprio come ha dovuto fare con la strategia dell’immunità di gregge ipotizzata all’inizio dello scoppio della pandemia. Altrimenti, l’unica strada percorribile resterà quella del no deal, un’alternativa a dir poco rischiosa in un momento di estrema vulnerabilità del sistema globale, in cui abbandonare le relazioni esistenti per costruirne da zero delle nuove non sembra essere una prospettiva auspicabile per nessuno. Neanche per un giocatore d’azzardo come Boris Johnson.