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Instabilità regionale

I timori dei militari dietro il golpe in Sudan

27 Ott 2021 - Jacopo Resti - Jacopo Resti

Il 25 ottobre il Sudan è stato teatro dell’ennesimo colpo di Stato manu militari della sua storia. Il braccio di ferro fra militari e civili era diventato incandescente nelle ultime settimane, contrassegnate già da un tentativo di golpe il 21 settembre e da successive proteste di piazza culminate in un imponente manifestazione il 21 ottobre, data che, non a caso, segna l’anniversario della rivoluzione sudanese del 1964 che depose il regime militare del generale Ibrahim Abboud.

Dopo aver ripudiato il colpo di Stato e lanciato un appello alla resistenza civile, il primo ministro Abdalla Hamdok, che da circa due anni guida il governo di transizione, è stato arrestato dai militari, insieme a diversi suoi ministri e consiglieri civili, salvo esser rilasciato nella serata del 26 ottobre, come riportato da al Jazeera. I militari, guidati dal generale Abdel Fattah Burhan, hanno sciolto il Consiglio sovrano e il governo ad interim, istituiti nel 2019 a garanzia della transizione politica, dichiarato lo stato di emergenza, occupato le strade della capitale Khartoum e bloccato tutte le comunicazioni e i collegamenti con l’estero. Immediata la condanna internazionale attraverso i comunicati ufficiali di Stati Uniti, Unione europea, Nazioni Unite, oltre ad altri Paesi europei, fermi a dichiarazioni di principio ma forti dell’importanza che i loro aiuti economici e riconoscimento politico rivestono per le sorti del Paese africano.

Il putsch è apparso come una chiara prova di forza dei militari. Ciononostante, è una reazione che nasconde non pochi segnali di timore rispetto allo sviluppo di una componente civile sudanese sempre più strutturata, organizzata e militante. Nonostante la pesante eredità del regime autoritario di Omar al-Bashir, durato un trentennio, la partecipazione civile alla transizione ha contribuito a inaugurare una nuova fase di trasparenza dell’azione governativa e di maggiore responsabilizzazione della leadership del Paese. È questa nuova tendenza a impensierire i vertici militari, dimostratisi riluttanti nel trasferire il potere ai civili.

Le contingenze e la situazione regionale
Nonostante le avvisaglie degli ultimi mesi, il colpo di Stato sembra spezzare all’improvviso le speranze della transizione. Tuttavia, non è la prima volta che questa subisce delle battute d’arresto a causa delle intemperanze nel dialogo istituzionale fra militari e civili (il ritardo accumulato rispetto alle scadenze inizialmente pattuite è già di oltre un anno). I costi maggiori di questi strappi politico-istituzionali sono stati puntualmente sostenuti in larga parte dalla popolazione sudanese, in particolare dai gruppi più vulnerabili.

Il golpe è lo “strappo” che esaspera maggiormente le criticità preesistenti. In Sudan, dove l’economia è al collasso e l’inflazione è una delle più alte al mondo, gli effetti immediati di questa rottura sono soprattutto socio-economici. Il blocco provocato dallo stato di emergenza colpisce infatti l’economia informale, privando gran parte della popolazione dei propri mezzi di sussistenza. Inoltre, viene compromesso l’accesso ai servizi di base e all’assistenza umanitaria, soprattutto nelle zone del Paese più periferiche e già interessate da conflitti interni.

Le turbolenze politiche sudanesi non risparmiano inquietanti incertezze per la stabilità di tutto il Corno d’Africa, regione di interesse geostrategico e importante crocevia delle rotte commerciali e migratorie che collegano l’Africa all’Europa e al Medio Oriente.  La regione è già dilaniata dalle guerre civili in Sud-Sudan e nella regione etiope del Tigray, e si regge su equilibri sempre più precari e polarizzati, che vanno dall’autoisolamento del regime eritreo alla faticosa ricostruzione dello stato somalo.

Il Sudan sopporta già molte delle esternalità legate ad un vicinato instabile, fra cui l’influsso di sfollati eritrei e sud sudanesi e l’instensificarsi degli scontri armati lungo le terre di confine con Etiopia ed Eritrea, specie per lo sfruttamento dei terreni agricoli nella zona fertile di Al-Fashega. Un’ implosione nazionale sudanese potrebbe indurre un effetto domino con conseguenze regionali più estese, ampliando le fratture già presenti.

Previsioni difficili
Difficile tracciare scenari futuri. Con tutta probabilità, l’intransigenza dei militari rimarrà e le proteste continueranno a scuotere il Paese. Ma nonostante gli attriti evidenti e la posta in gioco, nessun attore sembra volere lo scontro aperto. Lo spettro di un’altra guerra civile nel Corno d’Africa incombe per ora solo alla lontana e può essere dissolto attraverso una ricostruzione paziente del dialogo fra militari e civili.

Un nuovo accordo di transizione, qualora venisse raggiunto, difficilmente rappresenterà una formula ideale per tutti i contendenti ma, idealmente, dovrebbe cercare di scontentare il fronte militare e quello civile in egual misura, con l’obiettivo di infondere nuova credibilità, realismo e speranze alla transizione.

Nel frattempo, la comunità internazionale può e deve mantenere alte pressioni e aspettative per un’evoluzione concertata e pacifica della crisi, senza distogliere l’attenzione dal Paese una volta superata l’emergenza. Il colpo di Stato in Sudan non rappresenta un caso isolato: negli ultimi mesi episodi analoghi si sono verificati in Ciad, in Mali e in Guinea (senza contare i tentativi di golpe abortiti).

Una più seria e onesta riflessione sull’origine e sulle motivazioni di queste preoccupanti involuzioni socio-politiche consentirà di accompagnare con maggiore consapevolezza questi Paesi sulla via di uno sviluppo istituzionale ed economico sostenibile, scongiurando un ritorno ad un’epoca africana che sembrava archiviata nei libri di storia, quella dei colpi di Stato.

Foto di copertina EPA/STRINGER