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Venti di cambiamento?

La politica di difesa del governo Draghi

11 Ott 2021 - Fabrizio Coticchia - Fabrizio Coticchia

A distanza di pochi giorni, il presidente del Consiglio Mario Draghi è intervenuto due volte sui temi della politica di difesa. Prima ha affermato – in una dichiarazione inusuale per un premier italiano – che bisogna “spendere molto di più in difesa di quanto fatto finora”. Poco dopo, al termine del vertice Ue-Balcani in Slovenia, Draghi si è chiesto cosa possano fare “l’Unione europea e i suoi paesi membri per contribuire a guidare le scelte della Nato [che sembra] meno interessata all’Europa” e alle zone di interesse dell’Europa.

Alla luce delle parole pronunciate dal presidente del Consiglio occorre domandarci – da un lato – se siamo di fronte ad un significativo cambiamento e – dall’altro – quale siano le peculiarità della politica di difesa del governo Draghi. La letteratura di Relazioni internazionali aiuta a rispondere a queste domande, allargando lo sguardo dal contingente e confrontando gli eventi recenti con il processo di evoluzione della difesa italiana avvenuto negli ultimi tempi. Solo analizzando il “gioco a due livelli”, tra la dimensione domestica e quella internazionale, possiamo valutare il reale grado di cambiamento avvenuto (dal semplice aggiustamento all’adozione di mezzi o anche scopi diversi).

Nel caso della politica di difesa del governo Draghi – esaminando affermazioni pubbliche, scelte politiche e documenti ufficiali – possiamo delineare tre ambiti che meritano particolare attenzione: il bilancio, le operazioni militari nell’area di interesse prioritaria (il Mediterraneo allargato) e il ruolo all’interno della riflessione in atto nella Nato e nella Ue in vista rispettivamente del Nuovo Concetto Strategico e dello Strategic Compass.

Aumentano gli investimenti militari
Per quanto riguarda le spese militari, “il rilancio complessivo dell’industria nazionale della difesa, attraverso l’ammodernamento dello Strumento militare” rappresenta uno dei due obiettivi-chiave (assieme al “riposizionamento attivo nello scenario internazionale”) della politica militare del ministro Lorenzo Guerini. Proprio il Documento Programmatico Pluriennale 2021-2023 (Dpp), nel quale questi obiettivi sono esplicitati, evidenzia l’impegno concreto verso tale direzione, destinando notevoli risorse ad una vasta gamma di programmi d’armamento (dai droni fino al caccia “Tempest”).

La voce “investimento” nel bilancio della difesa è aumentata, rispetto al 2020, di circa il 40%. Ciò avviene parallelamente alla decisione Ue di riservare, tra le critiche di movimenti pacifisti e disarmisti, crescente attenzione (e supporto) alla cooperazione in ambito dell’industria militare. Se anche esecutivi precedenti hanno sostenuto questo processo a livello europeo, l’aumento delle spese e l’inusuale retorica volta a promuovere ulteriori investimenti rappresentano una novità rilevante (in un contesto segnato dalla rimozione politico-culturale degli affari militari, dalle conseguenze derivanti da soventi crisi finanziarie e dalla sostanziale contrarietà dell’opinione pubblica all’aumento del budget militare).

La crescente competizione strategica a livello internazionale, l’instabilità regionale o la peculiare natura del governo Draghi possono essere fattori centrali per spiegare la “finestra di opportunità” dietro tale evoluzione.

La centralità del Mediterraneo allargato
Il secondo ambito riguarda le operazioni militari. L’Italia, dalla fine della Guerra Fredda in poi, ha costantemente inviato truppe all’estero in una vasta pluralità di interventi, dai Balcani ad Haiti. Se le più di 40 missioni approvate a luglio dal Parlamento appaiono in sostanziale continuità con gli ultimi tre decenni (così come con il vastissimo consenso partitico rispetto a tali operazioni), occorre evidenziare la sempre più evidente priorità strategica attribuita dal governo al Mediterraneo allargato (che coincide in larga parte con il “fianco sud” della Nato), con un focus particolare rivolto al Sahel, per alcuni una sorta di “terzo cerchio e mezzo” nella politica estera italiana (dopo atlantismo, europeismo e, appunto Mediterraneo).

Più che un cambiamento siamo quindi di fronte ad una (graduale ma convinta) accelerazione di un processo di ri-orientamento strategico avviatosi in parallelo con il Libro Bianco 2015, le minacce percepite come crescenti provenienti dalla regione e la drammatica fine delle missioni legate alla War on Terror.

Rapporto con Nato e Ue
Infine, il terzo e più complesso ambito nel quale è possibile valutare il livello di cambiamento nella politica di difesa del governo è il rapporto con Nato ed Ue. Il concetto di “autonomia strategica” può essere interpretato come maggiore contributo alla sicurezza internazionale, come “assicurazione strategica” dato l’allentamento Usa dall’Europa verso l’Indo-Pacifico come luogo di competizione globale, o – infine – addirittura come indipendenza nelle relazioni transatlantiche.

A fronte di una visione francese che spinge per una sempre maggiore autonomia dell’Unione (con l’ambizione di Parigi di porsi alla guida), l’Italia ha adottato per molto tempo una posizione diversa. Come evidenziato spesso dal ministro Guerini, lo sviluppo di una politica di difesa dell’Unione europea, è sempre stata vista dall’Italia non in contrapposizione ma in “sinergia e complementarità” con la Nato, punto di riferimento-chiave per la sicurezza nazionale. Ma le recenti dichiarazioni di Draghi sottolineano (con toni inconsueti) la pressante necessità di avviare una riflessione sulle modalità con le quali l’Ue e i suoi Paesi membri possono “contribuire a guidare le scelte della Nato”, superando quella che è stata percepita come una marginalità europea, successiva al ritiro afghano e alla diatriba sull’Aukus.

I nodi irrisolti
Nel complesso, quindi, il livello di cambiamento della politica di difesa del governo Draghi non è certo trascurabile, sebbene occorra esaminare la traiettoria completa dei processi avviati per formulare un giudizio strutturato.

Infine, alcuni nodi appaiono tuttora irrisolti nella difesa italiana. Il primo è la riforma del comparto, superando squilibri decennali (a livello di bilancio e composizione del personale) nonché strenue resistenze corporative. In secondo luogo, una effettiva autonomia strategica non potrà vedere la luce in assenza di politica estera comune e con il perdurare di quella che alcuni autori chiamano “cacofonia strategia”, una divergenza nella percezione di interessi e minacce tra membri dell’Unione. Inoltre, sebbene sia evidente la priorità strategica attribuita al Mediterraneo allargato, non lo sono altrettanto gli interessi (che vanno definiti, al netto di vincoli e risorse) che il Paese difende.

In tal senso, il Parlamento, attore spesso ai margini delle decisioni di politica difesa, dovrebbe acquisire un ruolo centrale, favorendo un dibattito trasparente su interessi e scelte da compiere (nonché sul peso reale che temi quali il rispetto dei diritti umani possano ancora avere per la politica estera italiana, dopo le note vicende libiche). Infine, proprio una discussione pubblica avviata nelle apposite sedi istituzionali, consentirebbe di mettere in luce le “lezioni apprese” dopo lustri di operazioni oltre confine, a partire dalla missione in Afghanistan. Compiere i medesimi errori (focalizzarsi sull’addestramento di forze di sicurezza di regimi del tutto privi di legittimità, attribuire priorità alla dimensione militare a scapito della governance per garantire stabilizzazione, ecc.) in altri scenari (quali il Sahel) sarebbe un errore imperdonabile.

Foto di copertina ANSA/GIUSEPPE LAMI